10 September 2007

Diamoci da fare Shultz

Abitudini ormai consolidate da anni. Riti osservati ormai scrupolosamente ogni giorno. Tentazioni soddisfatte e innocenti strappi alla regola che deliziano la vita ordinaria. Ognuno di noi rispetta, ogni giorno, modeste consuetudini che in qualche modo addolciscono l’esistenza. Io le chiamo celebrazioni di me stessa. Un po’ come se mi premiassi da sola per quello che sono e che faccio ogni giorno. Non per essere egocentrica o megalomane ma, se non ci penso io, non credo lo farà il mio editore, così mi porto avanti e lo esimo da questo compito. Di recente nella mia lunga lista di piaceri che mi concedo quotidianamente, approfittando di una promozione di 10 giorni, ho introdotto Oresette del Corriere. Puntuale alle 7 del mattino, da un paio di giorni trovo il quotidiano infilato nella buca della cassetta della posta. Sublime sarebbe riceverlo direttamente sullo zerbino di casa, ma a breve conto di convincere qualche vicino di pianerottolo, per accrescere l’adesione condominiale al servizio e motivare l’omino di Oresette consegnandoli le chiavi del portone di ingresso per una consegna collettiva. A quel punto potrei aprire la porta di casa, raccogliere il giornale e sedermi a colazione senza molestare più del necessario il mio apparato muscolare. Per adesso sono costretta a scendere quasi in strada, in uno stato di dormiveglia imbarazzante per me e per chi ha la sfortuna di incontrarmi.
Altro piacere condiviso dai più, il caffè. A ciascuno il suo, disse qualcuno prima di me. Macchiato caldo o freddo, ristretto o lungo, espresso o decaffeinato, marocchino o d’orzo. Ognuno trasforma quello che nel nostro paese è un rito, in un piacere ritagliato a misura delle proprie papille gustative. Un paio di giorni fa veniva pubblicato su La Repubblica un articolo sul business del caffè, illustrante una sorta di guerra – shakerata fredda - tra aziende e colossi industriali intenti a trasformare chicchi di caffè in pepite d’oro. La giornalista citava realtà di antica tradizione come Illy, Lavazza e Zanetti (niente a che vedere con calciatori improvvisati imprenditori) e catene americane come Starbucks. Secondo il parere della (spero) futura collega il mondo si divide in due: quelli che il caffè lo gustano lentamente, seduti, leggendo il giornale con calma e quelli che lo buttano giù per il gargarozzo, addirittura per strada. Guarda caso, mentre la prima categoria ha per rappresentanti gli amanti della tazzina, la seconda categoria viene associata a Starbucks.
Io faccio colazione a casa, ma le rare volte che ho provato a farla in un bar della mia città, mi sono trovata a dovermi conquistare il bancone a spallate, pari a quelle viste a un concerto dei Pogues; per poi stare in piedi, a una vicinanza a dir poco metropolitana (nel senso di mezzo pubblico) con gli avventori del bar, in difficoltà sul dove posizionare il braccio della mano reggente il cornetto alla crema. Le ancora più rare volte che ho fatto colazione da Starbucks, rispettivamente a Londra e a Valencia, ero seduta a un tavolino, con un caffè americano in bicchierone di carta, muffin ai mirtilli, giornale e connessione internet a disposizione. Più che dover buttare giù velocemente un caffè, devo buttare giù la triste realtà che Howard Shultz, il presidente della società, ha avuto l’idea di aprire questa catena proprio visitando il nostro paese negli anni ’80. Ironia della sorte, proprio qui non è ancora stato aperto un punto vendita; peccato, aggiungerei volentieri alla lista delle celebrazioni di me stessa un quotidiano bicchierone di carta con tappo di plastica.

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