29 August 2006

Romantici equivoci in ufficio

Questa mattina sono arrivata in redazione, mi sono seduta alla mia scrivania, ho acceso il mio computer con in testa una domanda: “E se ci fosse qualcosa di vero nelle teorie esposte del film di ieri sera?”. Ecco, io molto raramente guardo un film in televisione, ma ieri sera mi sono bloccata davanti a “Romantici equivoci” con Jennifer Aniston, attrice da me stimata per come si è ripresa dall’abbandono di quel mollaccione biondo di Brad Pitt e per il suo tenace programma fitness basato sull’acquisto di un Elliptical dal valore di quattro mila dollari circa, le lezioni di Budokon, l’ultima novità in fatto di yoga, e le sessioni di Pilates. Oltre ad avere naturalmente uno chef personale. Jennifer Aniston interpreta Kate, ventottenne single, impiegata in un’agenzia pubblicitaria in attesa di una promozione che non arriva. Decide così di affrontare direttamente il suo capo per sentirsi rispondere che difficilmente verrà data una promozione a una dipendente che, malgrado l’impegno e i risultati sul lavoro, dà unicamente segnali di mobilità: una donna di ventotto anni che non è intrappolata da un mutuo trentennale, che non si trova impiccata tra cambiali o rate mensili di una macchina appena acquistata, e soprattutto, senza una relazione fissa, non dà molte garanzie di rimanere a lavorare a lungo nello stesso ufficio. Perché darle una promozione quindi? Per tenersela stretta forse? Non sia mai.
La mia situazione non è tanto diversa. Non ho l’incubo di un mutuo, ho finito di pagare tutte le dodici rate del mio frigorifero e giusto giusto potrei aprire un finanziamento per un veicolo a due ruote, ma di fatto la mia situazione è identica. E non ho un ragazzo, un fidanzato, un convivente. Niente di niente.
Possibile? Si è detto tanto di lasciare la avesse delle fondamenta? Se davvero i superiori considerassero semplicemente più “nella norma” chi ha una relazione fissa e conduce una vita tranquilla e accomodante dopo le ore 18? In un mondo dove le diete che promettono miracoli continuano a cambiare, cibi che fanno bene un giorno, nuociono alla salute il giorno successivo, potrebbe anche cambiare improvvisamente l’opinione di direttori, capi e superiori sui propri dipendenti a seconda che siano sposati, fidanzati, conviventi o nella più drastica delle situazioni, singoli?
Se avevo il dubbio alle 9, a metà mattina il timore si è fatto molto più concreto trovandomi davanti agli occhi un quotidiano della scorsa settimana con un articolo a pagina 29 (sì, proprio nel bel mezzo delle pagine di Economia, perché evidentemente in agosto, i giornalisti non sanno più che scrivere) che titola così: “Amore tra colleghi? Ora serve l’ok del superiore”. Già. Sembra che nelle aziende anglosassoni, in caso di colpo di fulmine tra colleghi, la prima cosa da fare sia quella di informare il proprio superiore. E se non bastasse, vengono firmati anche i Love Contracts, ossia degli “Accordi sulle relazioni consensuali” dove i due dipendenti invischiati in questo amore tra le scrivanie dell’ufficio assicurano che la cosa è frutto del sentimento e non di costrizione o molestia. Così interessati e azienda si metterebbero al riparo da ogni eventuale grana o problema. Allora tutta questa attenzione alle vicende personali dei dipendenti viene data veramente? E se fossi ufficialmente fidanzata sarei caporedattrice?
Anche Tess Mc Gill (interpretata da Melanie Griffith) in “Una donna in carriera” non si appoggia forse al bellissimo Jack Trainer (Harrison Ford) per un’acquisizione di una radio locale? L’dea l’ha avuta Tess, ma alla fine del film, se non fosse per l’intervento di Jack, il miliardario Trask non assumerebbe mai la brava Tess come dirigente.
Tess e Jack, Kate e Nick (la Aniston ottiene la promozione quando finge di avere un fidanzato a Boston): vorrà dire che da domani dovrò iniziare a chiamare l’InterFlora per spedirmi mazzi di fiori con tanto di biglietto con dedica?


03 August 2006

Da Playa de Gros a Los Cristianos

Mi era stato detto che una volta che fossi riuscita a stare in piedi sulla tavola, non avrei più potuto farne a meno, non sarei più riuscita a stare lontana dal mare o da qualunque spot suggestivo potesse offrire buone onde da surfare.
Chi mi aveva parlato così era stato uno shaper portoghese, incontrato durante un’esposizione di tavole da surf a Mundaka dove ero stata trascinata da Tia ed Enri, due dei miei più cari amici, dannatamente persi per il surf da onda.
Avevo preso quelle parole per scontate, cosa poteva mai dirti uno che sulle tavole da surf ci lavorava ogni santo giorno della settimana e che non faceva altro che buttarsi in acqua a testare le sue creature?
Tia ed Enri avevano cominciato sulla nostra costa, a Playa de Gros, perché eravamo nati e cresciuti nella città di San Sebastiàn, nel nord della Spagna.
Io li frequentavo dai tempi della scuola, ma solo nell’ultimo anno avevo iniziato a sentire la nostra amicizia più forte, e se ero cambiata io o loro, perché fossimo arrivati a una tale unione, beh, questo non me lo sono mai chiesto, ma quello che più mi importava era che con loro mi sentivo bene, eravamo assieme e con loro mi sentivo sicura, erano amici sempre presenti, a cui importava se stavo bene o male, se c’ero o non c’ero quando uscivamo tutti insieme e se c’era qualche problema potevo parlarne a loro, sempre che si raggiungesse uno di quei nostri rari momenti di serietà.
Doveva essere una fase per cui si passa per forza di cose quando si arriva ad avere sedici anni, avevo il bisogno di sentirmi parte di qualcosa, di fare parte di un gruppo e forse avevo la necessità di non sentirmi sola, ma sono tutte considerazioni che in quei giorni non mi sognavo nemmeno di fare, avevo sedici anni e avevo davanti a me un’intera estate per divertirmi.
Quell’anno non avevo avuto neppure la possibilità di scegliere dove passare le vacanze. Ci avevano pensato loro, comunicandomi la loro decisione una sera di giugno, al terzo giro di birre nel locale di Pablo, dove eravamo soliti incontrarci.
La metà era Tenerife, isola delle Canarie, rinomata per essere conosciuta come il paradiso del surf, e se poi avessimo avuto abbastanza soldi ci saremmo spostati anche a Fuerteventura, un’altra isola poco distante.
Spese previste: volo aereo di andata e ritorno e qualcosa per vivacchiare lì, più o meno un mese, considerato poi che Tia vantava certe conoscenze in Tenerife dove un suo amico d’infanzia si era trasferito da un paio di anni, e che a suo dire, ci avrebbe ospitato con immenso piacere.
All’aeroporto c’eravamo noi, tre zaini poco capienti, tre sacchi a pelo piuttosto ingombranti, tre tavole. Sì, tre mini malibu, per l’esattezza.
Io avevo ereditato ufficialmente la vecchia tavola di Enri, lui si era improvvisato shaper nell’ultimo anno e si era costruito da solo una nuova tavola con risultati, a dire il vero, piuttosto soddisfacenti e su cui nessuno avrebbe scommesso neppure una birra.
Non è che non avessi mai provato a prendere qualche onda, anzi. Qualche tentativo c’era stato, ma da lì a dire che ero riuscita nella missione, ce ne voleva.
E non mi sentivo veramente portata, ero più dell’idea che il surf fosse un’attività un po’ noiosa e avevo dei buoni motivi per pensarla così: d’altronde, quanto tempo si passava effettivamente in acqua prima che arrivasse un’onda decente da prendere?
E ammesso e non concesso che ne arrivasse una, io raramente ero riuscita a scattare in piedi e a rimanere per più di qualche secondo in equilibrio sulla tavola da surf.
Aggiungo poi che, la costa basca non gode di temperature dell’acqua tipicamente caraibiche trattandosi di Atlantico, ed io non credo di avere una buona resistenza per stare a mollo in acqua fredda a lungo.
Infine, e poi non mi lamento più, se mai fosse arrivata finalmente l’onda tanto attesa, quella per cui si inizia a remare con le proprie braccia e con tutta la forza possibile per trovare il giusto ritmo con l’onda stessa, a quel punto bisognava fare i conti con gli altri surfisti in acqua. Non sempre ci sono abbastanza onde per tutti gli assatanati che si trovano lì in acqua con te e spesso è una vera battaglia.
Se mi trovavo però con loro, se senza battere ciglio avevo deciso di partire con una tavoletta da surf sotto braccio anch’io, qualche ragione nascosta doveva esserci…forse era arrivato anche per me il momento di capire che cosa si provava a stare in equilibrio su un’onda.
L’arrivo a destinazione era previsto per le sette del mattino, avevamo trovato uno di quei voli economici dagli orari strampalati e così avevamo viaggiato tutta la notte, con scalo a Madrid intorno alle tre di notte, tanto per rendere confortevole il viaggio.
Alle otto prendevamo un autobus e carichi di zaini e tavole venivamo lasciati poco lontano dalla zona turistica di Tenerife, dove si susseguono spiagge che di lì a poco si sarebbero riempite di turisti e gente del posto.
Si era deciso che la prima tappa fosse una spiaggia dove il fondale era roccioso perché questo aspetto permetteva la formazione di onde regolari e facili da prendere, pertanto Los Cristianos era l’ideale e soprattutto non era distante da dove ci aveva scaricato il nostro autobus.
Dalla spiaggia si poteva già vedere una decina di surfisti in acqua, il sole era caldo e si prevedeva che sarebbe stata una giornata strepitosa.
Per me non c’era possibilità di pensare se provare o no: ero lì con la mia tavola e i miei amici e non avevo nulla da perdere, al limite mi sarei fatta le mie solite gran bracciate per cercare di prendere qualche onda e per cercare di forarle entrando in acqua in modo che non mi travolgessero.
Quello che è più sorprendente è che tutta la preparazione prende le sembianze di un rito: prima di entrare in acqua prende vita una serie di azioni precise e meticolose che si svolgono in una regolare successione.
Indossati costume e pantaloncini, si passa a cospargere di paraffina la tavola perché non sia scivolosa. La si stende e la si lascia un po’ al sole così che possa ammorbidirsi al punto giusto, per facilitare l’operazione di stesura. Tutto si svolge con calma, ma con lo sguardo rivolto verso un’unica direzione: il mare.
E’ importante studiarlo, capirlo e prenderlo per il verso giusto. Le onde seguono delle serie precise, ce ne sono quattro o cinque secondo i momenti e secondo il luogo in cui ci si trova e arrivano a cadenza abbastanza regolare.
Io mi limitavo a cercare di capire dove le onde fossero meno prepotenti. Non era una di quelle giornate in cui il mare è nero per la mareggiata e fa paura, ma ogni tanto si alzavano certe creste che non mi rassicuravano affatto.
Assicuro alla caviglia il leash per non perdere la tavola e senza perdere tempo via in acqua, fredda più come mai, considerate le correnti dell’oceano in questa zona geografica e forse anche a causa dell’ora del mattino, ma era l’ideale per riprendersi da una notte passata a dormire poco e male tra un aereo e il pavimento di un aeroporto.
Entrare in acqua è un’operazione semplice per chi riesce a forare le onde bene, ma nel mio caso mi è capitato spesso di essere quasi ribaltata e di non avere abbastanza forza per fare un duck-dive come Dio comanda. Questa è la prima tecnica che ti viene insegnata quando entri in acqua per la prima volta con la tavola. E’ fondamentale per riuscire a entrare in acqua quando le onde sono piuttosto alte, per bucare l’onda e ritrovarsi dall’altra parte, dove regna la calma piatta fino all’onda successiva.
In quell’occasione me la stavo cavando bene. Ero riuscita a superare una serie di onde della zone impact e mi trovavo in un tratto di mare tranquillo, ormai abbastanza al largo insieme agli altri surfisti, quelli che chiamavamo pinguini, riconoscibili da lontano per le loro mute nere, seduti a cavalcioni delle loro tavole mentre studiavano il moto ondoso.
Non so quante volte li avevo osservati dalla spiaggia, così piccoli e lontani, attenti ad osservare l’orizzonte per capire quali serie di onde avrebbero avuto e quali meritavano di essere surfate.
Ora, trovarmi in mezzo a loro era particolarmente emozionante, non erano più a metri e metri di distanza, ma erano lì, quasi affianco, e potevo sentirne le voci e le risate mentre aspettavano.
Era la prima volta che mi spingevo così al largo, altre volte avevo provato a prendere qualche ondina, ma non mi ero mai mischiata così tanto a un gruppo di surfisti in acqua.
Mi preparavo così a prendere qualche onda….incoraggiata dai miei eccitati compagni di viaggio, ma più che altro convinta di essere destinata a ribaltarmi sulla tavola e a rimanere sommersa nel turbine dell’onda, come era successo la grande maggioranza delle volte.
La sensazione è di trovarsi in una lavatrice nel bel mezzo di un programma di lavaggio a centrifuga piena. Fortunatamente dura poco, una manciata di secondi, ma quando si riemerge, si ha poca cognizione di come raddrizzarsi.
Rinunciare e sdraiarsi al sole ad abbronzarsi un po’ era un’alternativa allettante, ma almeno dovevo provarci.
E poi, cosa mi sarei sentita dire una volta uscita dall’acqua senza aver insistito un po’? Avevo un mese davanti e prima mi impratichivo del mestiere, meglio sarebbe stato.
Ma quella volta l’onda giusta è arrivata.
Che io me ne sia accorta veramente, corrisponderebbe poco alla verità.
So solo che un’onda in arrivo si stava gonfiando sempre di più, iniziava a formare una paretina e più che altro credo che mi abbia investito in pieno.
L’importante era girarsi per tempo con la tavola, prendere la direzione dell’onda, tenerla d’occhio e soprattutto…iniziare a remare vigorosamente con le braccia.
L’onda va presa nel momento giusto, non un attimo in anticipo e non un attimo in ritardo, perché altrimenti è tutto inutile.
Quante volte lo avevo fatto, ma poi rimanevo indietro e semplicemente la perdevo o mi ribaltavo nel momento in cui tentavo di mettermi in piedi, ma questa volta stava andando tutto bene.
Questa volta la sensazione era diversa.
Inizio a remare, sento la tavola che inizia a scivolare lungo la parete, mi ritrovo sulla cresta e questa volta, è l’onda che guida la tavola con una spinta così nuova e sconosciuta da sembrare irreale.
La precedenza sugli altri ragazzi in acqua è mia. L’onda è mia. Una ragazza del posto che rema a pochi metri di distanza e mi ha osservato, mi incita a mettermi in piedi, non sapendo che neppure io in quel momento, sapevo se ci sarei riuscita oppure no. E mi ricordo ancora il suo sguardo, era raggiante per me e per l’onda sorprendente che mi spingeva con qualla forza.
Se non mi avesse gridato di mettermi in piedi, credo che neppure ci avrei pensato tanto ero spaventata dalla velocità che avevo preso, ma a quel punto avevo capito che dovevo solamente scattare sulla tavola e mantenere l’equilibrio per non cadere in acqua.
Nel momento in cui è accaduto è stato tutto perfetto, irreale e devastante allo stesso tempo. In un primo momento la forza dell’onda mi è sembrata spaventosa, ma mi ricordo ancora l’urlo di gioia esploso appena in piedi sulla tavola, non credevo d’esserci riuscita, non credevo di aver potuto, anche se per solo un istante, avere il controllo di una forza della natura come un’onda dell’oceano.
L’onda mi spingeva vigorosa verso la spiaggia, e la sensazione di onnipotenza che ho provato in quegli istanti la posso ricordare ancora oggi nitidamente.
Dovevo dare ragione a quello shaper portoghese incontrato mesi prima: “La prima volta che ti metterai in piedi su una tavola, non smetterai più di fare surf nella tua vita”.
Forse è l’equilibrio che si arriva ad avere su qualcosa che è immensamente più grande di noi, forse è la sensazione di essere così a contatto con la natura, ma non si tratta sicuramente di sola adrenalina.
C’è qualcosa di più nel surf e credo di aver iniziato a capirlo quell’estate, il primo momento in cui mi sono messa in piedi sulla tavola.
Definire il surf è qualcosa più grande di me. Se ne può parlare ma si tratta di un’emozione indescrivibile, qualcosa che avvicina all’immensità della natura, alla potenza del mare e alla realtà della vita stessa.
Quell’estate mi sono divertita un mondo, Tia ha avuto delle storie sentimentali da capogiro, Enri è riuscito a vendere due delle tavole da lui costruite, io ho imparato a surfare. Ma è stata un’estate fondamentale per iniziare a crescere con una visione delle cose e delle persone completamente nuova, che credo di aver iniziato a sentire mia quel giorno di agosto, nella spiaggia di Los Cristianos.