31 October 2006

“McMouse Menu con cassata siciliana, grazie!”

Tempo fa mi sono imbattuta in una notizia curiosa che titolava “Palermo, pagati per contare i tombini”. Spero di non finire dietro delle inferriate per aver trascritto fedelmente un titolo comparso su un quotidiano nazionale, giacché di tombini si parla. Ad ogni modo, l’articolo raccontava di come a Palermo risulta che circa una settantina di personaggi vengano pagati per contare, ogni giorno, i tombini della città. E che ci sia anche chi percepisce uno stipendio per controllare ogni giorno che i loro colleghi contino i tombini. Tutto questo succede a Palermo Ambiente, un’azienda costituita tra la Provincia e i Comuni di Palermo e Ustica per la gestione dei rifiuti.
La giornata tipo? Dopo un caffè veloce alla macchinetta dell’ufficio coi colleghi fortunelli, il contatombini sale in auto e si dirige verso un quartiere. E lì, comincia a contare. Tombini, feritorie sui marciapiedi, qualsiasi cosa abbia la forma di una grata. Poi, a fine giornata, torna in ufficio con un foglio zeppo, zeppo di numeri: la lista dei tombini di Palermo.
A volte, al contatombini, viene richiesto di scattare anche qualche foto. L’utilità? Per ora non mi è chiara, tanto meno al giornalista, tanto meno al contatombini, ma magari un giorno ne verrà fatta una mostra fotografica post-moderna, esaltata da qualche critico d’arte psicotico, chi può dirlo. L’articolo proseguiva parlando di qualche fatterello nella città con espressioni come: “È sempre festa a Palermo”, “quando c’è da assumere mogli e figli non si bada a spese”, “assunzione assicurata da parente”, bla, bla, bla. Ma quello che più mi ha colpito è stato scoprire che un contatombini arriva a guadagnare 800 euro al mese, cifra che di poco si discosta dalla mia paghetta mensile. Va beh, io sono praticante. Ma un contatombini? Non è che ci sarà dietro qualcosa? D’altronde di Palermo stiamo parlando. Ci ho pensato un po’, finché le notizie da oltremanica non mi hanno tolto ogni dubbio. A Palermo deve essere arrivata la notizia dei super ratti londinesi: esemplari di cinquantacinque centimetri del Rattus Norvegicus, topastri golosissimi di McCheese, McNuggets & Co. e che, grazie ai prodotti del Mago G d’oltreoceano, si riproducono piuttosto rapidamente, al ritmo di dieci, dodici pargoli per volta.
Ora, un topo da cinquantacinque centimetri è o non è grande come un gatto? Se poi questi ratti sono così forzuti da resistere ai veleni di ultima generazione e da fare concorrenza all’invincibile Rat-Man, ben vengano i contatombini… Perché non indire un concorso pubblico anche a Milano, Genova e Venezia dove l’allarme è stato lanciato anche dall’Istituto Superiore di Sanità? Tanto, i topi non mancano, tombini ce ne sono a iosa e parenti da raccomandare pure. E per chi stasera andasse a caccia di gatti neri, occhio a non inciampare in qualche supertopo cittadino.

26 October 2006

Lo voglio grande, ricoperto di panna, in un bicchierone di carta

Espresso, Caffè americano, Frapuccino, muffins integrali, al cioccolato e ai mirtilli, Cookies e Brownies… no, non sono in preda a un attacco bulimico, voglio solo il mio Starbucks, in Italia, possibilmente a Milano. Avete in mente Gwineth Paltrow nel film “Sliding Doors” mentre corre al lavoro con in mano un caffè in un bicchierone di carta e relativa ciambella consegnateli per strada dal suo (deduco) barista di fiducia? Ecco. Vorrei mi capitasse la stessa cosa ogni mattina, prima di entrare in redazione. Vorrei un caffè americano grande accompagnato da muffin con gocce al cioccolato (ben diverso da quello che ti rifilano di questi tempi negli autogrill) e arriverei in ufficio col sorriso stampato in faccia.
Di recente sono stata a Valencia. Al civico 44 di Calle San Vicente, hanno aperto da poco un nuovo Starbucks. Il giorno del mio rientro in Italia, domenica mattina, ho deciso di fare la colazione dei miei sogni proprio seduta su un divanetto di Starbucks, sorseggiando un Frappuccino alla cannella e guardando fuori dalla vetrata la gente che passava per strada. Deliziata e soddisfatta da tutto quel ben di dio, prima di uscire ho scambiato due parole con il cassiere spagnolo, un certo Juan. Da quello che ho capito, Valencia ha il suo Starbucks per le numerose richieste fatte avere all’Head Office dell’impresa americana da parte di vari fan caffeinomani come la sottoscritta. Ma pensateci bene… saremo pure il paese con il culto del buon caffè, ma al mattino siamo sempre lì, davanti a un bancone, rigorosamente in piedi, a sgomitare per poterci bere in tutta fretta un espresso e addentare una brioche (o cornetto) alla crema. Per non parlare di quando, arrivati in ufficio, si beve l’intruglio scuro erogato dalla macchinetta del caffè (si suppone, infatti, si tratti di caffè) più volte al dì. Vuoi mettere con il piacere di sedersi in un locale che ha tutte le sembianze di un salotto, con quadri e stampe alle pareti, con quotidiani freschi di stampa da leggere e computer disponibili per navigare in rete?
L'idea geniale è venuta a un certo Schultz (proprio come quello dei Peanuts, ma con una “t” in più). Sapete dove? Proprio a Milano, quando, trovandosi a passeggiare in corso Vittorio Emanuele, questo Schultz si accorse della gran quantità di bar a Milano e di quale business potesse rappresentare. Da qui, l’idea di una catena di Coffee bar che in circa vent’anni, ha tappezzato il continente americano e non solo. In Europa ci sono Starbucks in Inghilterra, Irlanda, Francia, Grecia, Austria e Spagna. A Milano è arrivato anche il Disney Store. Dov’è Starbucks?

25 October 2006

E se mangiare una pizza aiutasse i neuroni alfa?

Ho ancora il ricordo indelebile di come un pomeriggio, mentre mi trovavo a casa della mia amica Francesca, io e lei rimanemmo interdette e pensierose nel sentire dalla voce dell’esperienza di sua madre che “rimanere incinte è tanto facile, quanto difficile”. Possibile?
In quel momento non cercammo tante risposte e preferimmo rimanere nel terrore reverenziale di “rimanerci” e pertanto di continuare a stare molto, molto attente. E adesso, dopo almeno dieci anni di attività, mi sorprendo invece di come avesse ragione. Non perché io ci abbia mai provato, ma le condizioni per cui il fatto si verifichi, sono veramente pari a quelle di vincere il superenalotto. Dipendesse solo da ovaio e utero, prepotenza e vitalità degli spermatozoi, va beh. Nell’arco di ventotto giorni di ciclo, sembrerebbe che il rischio si corra solo nelle 48 ore intorno al 14° giorno di ovulazione. Ma che tutto avesse anche dipendenze psicologiche? Sembra che ci si mettano in mezzo anche dei neuroni, che giacciono nell’ipotalamo. Ecco come funziona (io ho dovuto leggere più volte l’articolo): se l’ovulo è maturo, il cervello deve essere informato dagli estrogeni e il messaggio viene recepito da questi neuroni per l’appunto, che hanno nella membrana un recettore alfa, in grado di ricevere gli estrogeni. In soldoni, un deficit funzionale di questo circuito cerebrale secondario può determinare l'infertilità. Se il cervello può fare tanto sono sicura che esista veramente, come pensavo da tempo e non mi spiacerebbe diventasse materia di studio di qualche neuroscienziato disoccupato, una relazione tra gli elementi domenica, diluvio e pizza, questione a me di sicuro più vicina, e dove “Domenica” è elemento sostituibile con un altro giorno della settimana, ma l’elemento “Diluvio Universale” è la costante. Qualcuno mi spieghi quindi, com’è che la voglia di mangiarsi una pizza cresce esponenzialmente quanto più piove o sta diluviando. Succede anche a me, e se è domenica, ancora di più. Vuoi perchè di domenica si sta più tempo a casa e non si ha poi voglia di uscire, pertanto, c’è sempre chi (almeno 3 famiglie italiane su 5) la butta lì: “Ordiniamo un pizza?”. Proposta che solitamente riceve spesso e volentieri all’unanimità i consensi dei presenti. Ma perché la tentazione è ancora più grande quando piove? Ci ho pensato l’altro giorno quando dopo aver passato 40 minuti in scooter, sotto un diluvio satanico, in mezzo al traffico delle 18, entrando in casa anch’io ho pensato maleficamente “Perché non ordinarmi una pizza?”. Io sono certa che questo mio pensiero (non dell’ordinare la pizza ma della stretta relazione domenica+pioggia=pizza”) sia condiviso da milioni di consegnapizze nel mondo, quelli di Tipico, Pizza Hut e tutti i vari pizza-da-asporto minori, che guarda a caso, in un angolo della vetrina del locale hanno sempre appiccicato un bel cartello con la scritta “Cercasi ragazzo/a per consegna pizze”. Senza dubbio, una delle figure professionali più richieste dopo gli informatori del farmaco e i venditori di spazi pubblicitari…

20 October 2006

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate

In una lezione di 50 minuti, la curva d’attenzione di uno studente raggiunge l'apice dopo i primi 7-8 minuti, per poi avere un calo costante che verso i 26-27 minuti di lezione raggiunge il minimo. Dopo questo crollo, fortunatamente risale e si mantiene abbastanza costante fino alla fine dell'ora (sempre al di sotto comunque dell'apice iniziale). In una riunione di lavoro non cambia proprio un fico. Già. Il problema è che si sa quando si entra, ma non si sa quando si esce. Chi rimane chiuso in ufficio otto ore al giorno, come la sottoscritta, non la scampa. Per animare gli entusiasmi, passa sotto gli appellativi più di tendenza del momento, come briefing, meeting, brain-storming…ma vogliamo o no chiamarla cazzo di riunione di lavoro?! Tanto quella è. Sopravvivere? Si può. In primis, fondamentale la scelta della poltroncina su cui si deciderà di sprofondare in maniera direttamente proporzionale alla durata del rendez-vous. La mia raccomandazione è Sempre poco in vista: lontano dal capo, lontano dal collega antipatico, da quello con l’alito cattivo, da quello con un principio di influenza o, peggio che mai, con un virus intestinale (io una volta ne ho preso uno così), ma questo purtroppo non lo potete sapere. Se nei primi dieci minuti potrete stare attenti, poi non la darete a bere a nessuno… i pensieri più bizzarri inizieranno a passarvi per la testa: “Avrò chiuso la porta di casa?”, “Ho preso la pillola ieri sera?”, “Cacchio, non ho riportato i DVD da Blockbuster!”, e così via. Pensieri fulminei e incontrollati, l’importante e non farsi prendere da sussulti corporali incontrollati davanti ai colleghi. Poi esiste un categoria di pensieri, assolutamente voluti e ricercati. Mi spiego. Proprio quando si abbandonano le speranze di poter riuscire ad ascoltare quello che ha da dire il collega o il vostro superiore, ormai lanciato in un monologo senza controllo, la soluzione è iniziare a pensare a qualcosa di piacevole, gratificante, che vi in trattenga fino al termine del monologo perlomeno. Eventuali organizzazioni domestiche propositive per riportare a un aspetto umano il bilocale lasciato in stato ignobile al mattino, la compilazione di una lista della spesa virtuale da fare prima di tornare a casa (anche se io me la scrivo spudoratamente sul block-notes sotto gli occhi dei presenti) o, perché no, fantasie, frammenti e fotogrammi di scene di sesso della sera prima se si è fortunati o di qualche giorno addietro, se l’attività è parsimoniosamente distribuita nell’arco della settimana. Tutto senza espressioni beatificate sul viso o sorriseti appena accennati, o peggio sguardo perso nel vuoto. La pratica, ad ogni modo, aiuta. Altro metodo per rimanere desti è dare spazio all’estro e alla creatività di ciascuno di noi: disegnare fiorellini, triangoli, cerchi, greche bizzarre da proporre a La casa del Bagno di viale Monza, animali e marziani, o studiare le più molteplici varianti alla vostra firma. Se la riunione vi tocca la mattina siete fortunati, magari vi siete anche presi la vostra dose quotidiana di Ginko Biloba, ginseng, pappa reale, Actimel o Multicentrum. Se vi capita prima o dopo pranzo siete nella merda: nel primo caso, non so se andrete a pranzo e sarete torturati da una profonda voragine che si aprirà nel vostro stomaco; nel secondo caso, sarete in piena digestione e, con l’addizionale di un pasto a base di capriolo con polenta o pasta al pesto, sarete già a lisciare le ali di Morfeo. Ma se tutti sanno che sta’ benedetta curva dell’attenzione inizia a dare i primi segni di cedimento dopo i primi dieci minuti, perché mai certe riunioni durano una vita?

16 October 2006

No, mi spiace. Giovedì sono impegnata…

Tranquillo. Anzi, di umore buono. Che problema c’è? Il sospetto Unabomber è indagato solo per una ventina di attentati commessi negli ultimi dodici anni. Le ipotesi di reato? Lesioni personali continuate, aggravate dalla finalità di terrorismo, cui si aggiungono fabbricazione, detenzione e porto di ordigni per finalità di terrorismo. Ma lui è tranquillo e lo dichiara serenamente, mentre sta seduto al bar, poco distante dal Palazzo di Giustizia di Trieste, dove a breve dovrà presentarsi. Se fosse un personaggio dei fumetti, sarebbe il fratello naturale del Signor Burns, il proprietario semidemoniaco della centrale nucleare di Springfield dove lavora il buon Homer Simpson. Se non fosse un ingegnere, non vestirebbe in abito scuro, camicia bianca e… calzini bianchi. E questo è il punto della questione. Sono curiosa di vedere come si concluderanno le indagini intorno a questo uomo solare e dal sano colorito, ma trattandosi di un ingegnere, purtroppo un’opinione, se pur personalissima, non ho potuto fare ameno di farmela. È un ingegnere. Il problema è tutto qui.
Civile, industriale, dell’informazione, edile, aerospaziale… per me, tutti gli ingegneri, sono una categoria da evitare. Passi averne uno come amico, come collega, parente acquisito, ma è sempre meglio tenersene alla larga. Il primo racconto che mi capitò di ascoltare anni fa, riguardava un ragazzo che studiava ingegneria al Politecnico di Milano e che un giorno, dopo un periodo di studio piuttosto intenso, era scappato nei boschi (per rimanerci). Non so quanto ci fosse di vero in questa potenziale leggenda metropolitana, ma ne rimasi abbastanza colpita. Anni più tardi, sbiadito il racconto di questo improvvisato Orzowei, mi è capitato di uscire con un ingegnere, propinatomi da mia sorella e dal suo (di allora) fidanzato che ci giocava a squash ogni mercoledì sera. “Devi uscirci: è alto, sportivo, simpatico, intelligente”, e… ingegnere. Ci sono uscita quattro volte credo. Appena mi sono accorta che nel suo time schedule aveva programmato le nostre uscite serali sul giovedì (e che per chiedermi di uscire mi chiamava ogni lunedì alle ore 21, più puntuale delle bollette dell’Enel), me la sono data a gambe levate. Non prima di aver provato a baciarlo, che è stato tale e quale baciare un trancio di rombo appena tolto dal freezer. Se ci avessi fatto del sesso, non ci sarebbe stato niente di strano nel vederlo con gli occhiali da vista addosso per l’intera durata di un incontro, tanto passionale quanto una partita a ramino. Errare humanum est. Così non è stata né la prima né l’ultima volta che sono uscita con un ingegnere, ma lo devo dire, prima o poi, qualcosa di psicopatico, di problema caratteriale convulso che potrebbe sfociare in un atto degno di articolo da prima pagina per la cronaca nera, se esci con un ingegner lo snasi. Quindi, diffidate dei calzini bianchi, diffidate di un ragazzo che, guarda a caso, vi chiede di uscire sempre il giovedì o qualunque altro giorno della settimana, diffidate di scatti, tic nervosi e movimenti rapidi e immotivati da salamandra agitata. Il mondo è pieno di Elvi (mostri-ingegneri degni di un sequel de “Il signore degli anelli”) da cui tenersi a debita distanza. Se poi si mettono a fabbricare pure bombette…

12 October 2006

Due gechi per salvarti dall’essere pixelicida

Esattamente dieci anni fa veniva lanciato sul mercato il Tamagotchi. Altro non era che un animaletto virtuale, un pulcino per l’esattezza, che andava accudito, nutrito, educato e credo anche …pulito, ma su questo, non voglio approfondire. In caso di trascuratezza da parte del tutore-proprietario, il Tamagotchi poteva anche morire, gettando nel massimo sconforto il padre o la madre adottivi. In verità, non si trattava solo di un gioco educativo (e un poco spietato), ma di uno strumento per mettere alla prova un certo senso di responsabilità. Questo pulcino virtuale in qualche modo arrivava a colmare quel bisogno che sentiamo, a livello conscio o no, di prenderci cura di qualcuno o qualcosa nella vita di ogni giorno, al di fuori di noi stessi. Un altro esempio erano i Cercafamiglia della Harbert, una delle prime aziende di giocattoli a pensare a prodotti per aspiranti cuochi come il Dolceneve per fare il gelato o il DolceForno (mia sorella lo aveva, ed io ci facevo le torte a base di Nesquick).
I Cercafamiglia mi conquistarono. Ne chiesi uno a Natale e adottai così Tobia, un bracco di pezza, color marrone chiaro con grandi macchie più scure e un collarino a forma di osso con il suo e il mio nome.
I Cercafamiglia non ci sono più ma, a breve sul mercato ci sarà un’altra novità (o mostruosità). Si chiama Pixel Chix ed è una sorta di compagna di giochi o amica virtuale che interagisce, mangia, parla, dorme e balla, la via di mezzo tra un Tamagotchi e una Barbie. Vive in una casa tridimensionale che a scelta può essere un loft all’ultima moda, un cottage di campagna o una villa sontuosa. Ha anche una macchina virtuale ovviamente, rosa, lilla o blu. Fin qui, potrei odiarla solo per dove vive. Quel che è peggio è che la simpatica, irriverente e ironica Pixel Chix sembra avere anche la battuta pronta, tanto da arrivare a rispondere male nel caso in cui non le piaccia il vestito con cui deve uscire o se viene spedita a dormire presto. Non solo. Se si sente trascurata si potrebbe intristire, potrebbe riempire la casa di ragnatele, fare le valigie e andarsene sbattendo la porta. Come c****** si fa ad avere voglia di interagire con un’amica virtuale del genere? Io ci giocherei cinque minuti, poi ce la manderei di sana pianta. Passi il Tamagotchi, il Cercafamiglia, ma una Pixel Chix in casa mia non entrerà mai. Prendersi cura di chi o cosa allora? Una prima soluzione mi è stata data pochi giorni fa, da un’amica: lei e il suo compagno hanno appena costruito un terraio in casa per ospitare a breve, due gechi. Se la decisione di convivere con un geco, un cincillà, un criceto o un furetto o qualsiasi altra forma animale non è una, anche solo stitica, dimostrazione di volersi prendere cura di qualcuno, dovete spiegarmi quali sono le motivazioni di base di tale scelta. Passi un cane, un gatto, un coniglio, qualcosa che sia morbido da accarezzare, ma dei gechi. E poi, questo bisogno di responsabilizzarsi così tanto da volersi prendere cura anche di un’altra entità, oltre all’essere vivente con cui già ci si sveglia e ci si addormenta ogni santo giorno? Sarà per questo che poi si fanno anche dei figli? Finora, nella mia vita mi sono occupata di due pesci rossi, Pippo e Poldo, di una pappagallina che avevo chiamato Margie e di Achille, ovviamente. Un geco non lo avevo ancora considerato. Una Pixel Chix, manco a morire, ora che la conosco. Dei lombrichi forse, ma solo a scopo utilitaristico per le piante di casa. Attualmente ospito da mesi una lumaca sul balcone. Potrei salvare dal luna park con il tiro a segno un coniglio o adottare un asino a distanza e andarlo a trovare nel fine settimana.