31 January 2007

Marmotta per un giorno. O una settimana?

In questi giorni c’è un grande confusione. Sembra che a tutti i costi si debbano intitolare queste giornate di freddo polare a qualche bislacco animale. Tanto per cominciare, oggi è l’ultimo giorno della Merla. Secondo una storiella popolare, inculcata nella testa dei bambini fin dalle elementari, gli ultimi giorni di gennaio, 29, 30 e 31, coinciderebbero con i giorni più freddi dell’anno. La leggenda racconta di come un giorno particolarmente freddo, una merla (perché non un merlo poi?) dalle piume bianche decidesse di ripararsi in un camino e di come successivamente il suo manto diventasse grigio a causa della fuliggine. Ma il dubbio è un dono, ed io a queste leggende non ci credo. Così nei giorni scorsi ho fatto le mie ricerche e ho scoperto che anche a qualche dipendente del Centro Geofisico Prealpino era maturato qualche dubbio sulla questione. Dal lontano 1967, questa interessante struttura scientifica volta a prevenire calamità naturali e disastri ambientali, esegue periodicamente statistiche mirate da cui risultano interessanti considerazioni. La temperatura media dei suddetti tre giorni è di 3.7 °C. Se si pensa che la temperatura media di gennaio (calcolata sullo stesso periodo di osservazioni) è 2.8 °C, la media di questi tre ultimi giorni risulta di quasi un grado (0.8 °C) più alta. Statisticamente risulta anche che dopo il 10 gennaio la temperatura tende ad aumentare. Forse la storiella della merla, è tutto sommato una storiella a cui si potrebbe cambiare una qualsiasi quarta consonante ed è nata quando a gennaio faceva ben più freddo. Ad ogni modo grazie alle statistiche meteoclimatiche del Centro Geofisico Prealpino questa mattina mettere i piedi giù dal letto mi è costato meno fatica.
Risolto il caso Giorni della merla, mi preme parlare, sorvolando Il Giorno della Civetta, del Giorno della Marmotta, che si celebrerà tra un paio di giorni, per la precisione il 2 febbraio. La tradizione vuole che in questo giorno “si debba osservare il rifugio di una marmotta”. Avevo interpretato il termine "osservare" secondo il significato etimologico di adempire, da un punto di vista di profondo credo religioso, tradotto pertanto nell’azione di starsene comodamente a casa sotto il piumone per tutta la giornata dimenticandosi di colleghi, uffici stampa e macchinetta del caffè. Mi sbagliavo.
In realtà, la tradizione vuole che davvero si osservi il rifugio di una marmotta, dove la prima difficoltà sta nel trovarne uno: se questa (la marmotta) spunta dalla sua tana e non riesce a vedere la sua ombra significa che il tempo è nuvoloso e in questo caso l’inverno finirà presto; se invece riesce a vedere la propria ombra, significa che è una bella giornata. Cosa sconcertante è che a questo punto la marmotta sarebbe presa da cotanto spavento nel vedere la propria ombra da sparire di nuovo nella propria tana e così facendo, secondo la tradizione allungherebbe ancora l’inverno per altre sei settimane. Se vogliamo poi discutere sul giorno della Marmotta, per me ogni giorno della settimana, da lunedì e venerdì, un po’ lo è. Un po’ come nel film Ricomincio da capo dove un Bill Murray (quello di Ghostbusters) inviato alla Cronaca della Marmotta, era costretto a rivivere in continuazione la stessa giornata. Non voglio esagerare, ma mettendo in loop le azioni sveglia, tazza di Nescafè e ciambella, 30 minuti di lavaggio generale in bagno, sosta di 5 minuti davanti all’armadio per decidere cosa mettersi, 30 minuti di scooter sulla MI-TO, caffe della macchinetta in redazione, articoli, telefonate e mail, pausa pranzo, articoli, telefonate e mail, 30 minuti di scooter sulla TO-MI, 60 minuti per attività fisica in palestra, doccia, cena, check-mostri sotto il letto, letto…si ottiene una settimana di giorni della marmotta. Questo dovrebbe far pensare.

26 January 2007

Ok, quanti mostri ci sono sotto il mio letto stanotte?

Buio. All’improvviso tutto è avvolto nell’oscurità. Non esistono più l’armadio, il contenitore dei giochi, i poster sulle pareti. Nulla. A chi non ha mai fatto paura trovarsi al buio, quando era piccolo? (o forse ieri notte?). Il buio fa paura. Sembra che sia una delle paure più diffuse tra i bambini insieme alla paura dell’uomo nero, dei lampi e dei fulmini, la paura di rettili e ragni, la paura di essere abbandonati al casello dell’autostrada di Boffalora o di perdersi tra gli scaffali di un supermarket. Posso provare a dare una giustificazione alla paura di trovarsi tra le fauci di un rettile incattivito o di incappare in qualche psicopatico per strada, ma la paura del buio, perché?
Eppure, fin da piccoli, ognuno trovava il suo personale stratagemma per superare quel lasso di tempo di puro terrore che faceva da anticamera al sonno. C’era chi lasciava la luce del corridoio accesa perché attraverso la porta semiaperta entrasse uno spiraglio di luce nella stanza. Qualche bambino più pauroso preferiva lasciare addirittura una lampada accesa vicino al letto, accanto al rassicurante bicchiere d’acqua fisso sul comodino, nella remota eventualità di avere sete durante la notte.
C’era poi chi si affidava alla tecnologia moderna usando lo spinotto con i personaggi della Disney. Ma sì, quegli spinotti rotondi con l’iconografia di Topolino, Ciccio o Nonna Papera e che, una volta inseriti nella presa elettrica, emettevano una luce piuttosto modesta ma sufficiente per potersi addormentare un po' meno terrorizzati. Io avevo un debole per Paperino. Mi lavavo i denti con il dentifricio alla fragola di sua produzione, il Paperino’s per l'appunto, e avevo anche il suo spinotto. Con gli anni hanno inventato anche un pupazzo, credo si trattasse di una lucciola gigante simile a un bruco, che si illuminava tutto. Portarmi a letto quella sorta di bozzolo, a me personalmente avrebbe creato qualche problema, però si sa, i bambini sono strani. Io andavo a letto in compagnia numerosa, cosa che con gli anni non ho più fatto preferendo alternare momenti di monogamia e ascetismo tibetano. L’allegra comitiva che mi portavo a letto era composta da un cane Cercafamiglia, Bert di Sesame Street, una scimmia e l’orso della Harbert. Mi davano sicurezza, salvo il fatto che a volte, quella che non trovava posto nel letto ero io.
L’idea di non trovarsi da soli nel letto, nel buio più cupo e tenebroso, è evidentemente rassicurante. Ma da chi e da cosa ci si vuole sentire sicuri? Dall’attacco di mostri sotto il letto? Da esseri immondi nascosti (da tutto il giorno?) nell’armadio? Da Freddie Krueger? Da intrusi intrufolatisi quatti quatti in casa? Questa, è già più credibile.
Alcune paure si superano. Altre si aggiungono a quelle che già si avevano. C’è ancora chi non dorme in una stanza dove le tapparelle sono tutte tutte giù. C’è ancora chi, con la scusa dell’ultimo tecnologissimo orologio-sveglia, si sente rassicurato dai numeri digitali che indicano l'ora proiettati sul soffitto a mo’ di faro bretone.
Io, per abbandonarmi alle braccia di Morfeo, non mi affiderei mai a una di quelle mascherine che ti consegnano sull’aereo nelle tratte intercontinentali insieme alle calzette di spugna. Sì, la mascherina che indossa Audrey Hepburn in A colazione da Tiffany. Ci manca solo che qualcuno, da sotto il letto, mi aggredisca alle spalle senza che io possa vederlo.

23 January 2007

Don’t be late at work! Il nuovo gioco della Nintendo

Wii è una console per videogiochi di Nintendo, con un controller senza fili simile a un ordinario telecomando, che reagisce alla posizione e all’orientamento rispetto alla barra sensore. Che spiegazione, eh? Qualcuno in fase di gioco - animato sotto diversi punti di vista, preso dalla frenesia con un lancio poco calibrato del suddetto telecomando, ha già spaccato lo schermo del proprio televisore, ma il colosso Nintendo è già al lavoro per porre rimedio all’impeto dei giocatori più appassionati. Da pochi giorni c’è poi un nuovo gioco: Don’t be late at work!
Si tratta di una corsa in città su un mezzo a due ruote a scelta tra una volgarissima bicicletta, una moto da strada, una da cross, uno scooter e via dicendo. Scelto il veicolo, si parte, per raggiungere il posto di lavoro (strano vero?). C’è un tempo da tenere in considerazione e una certa velocità da mantenere, tutto finalizzato a ottenere un punteggio tale da superare i vari livelli.
Il primo livello è piuttosto semplice: traffico di routine, manovre balzane di qualche automobilista, pedoni che si lanciano all’improvviso sulle strisce pedonali, vigili a terra più simili a rampe di lancio che altro, buche nell’asfalto grandi e profonde come crateri sulla Luna. Tutto sommato, un giocatore o motociclista virtuale un po’ scaltro dovrebbe cavarsela senza lasciarci le penne. Al contrario, il secondo livello è piuttosto complicato. Tanto per cominciare, si parte a cavallo del proprio mezzo bardati come Soldini nell’ultima traversata oceanica in solitario. Già, l’Avatar oculatamente scelto da voi per intraprendere l’avventura di Don’t be late at work! viene reso praticamente irriconoscibile da una sorta di cerata gialla ottenuta tra l’altro solo se sono stati totalizzati 500 punti nel precedente schema. Poi, inizia l’avventura. Asfalto Aderenza Zero per condizioni climatiche pari ai più devastanti cicloni tropicali dell’ultimo ventennio (messi tutti insieme però, e qui si capisce la necessità di una cerata), raffiche di vento, non solo ambientali ma anche quelle dei Tir teutonici che vi vogliono lisciare la fiancata del mezzo, automobili governate da uomini con cappello ben calcato in testa in modo da non avere assoluta coscienza di quello che accade intorno al loro trabiccolo o automobili la cui targa riporta sulla destra, la sigla CO.
No, non sta per coglione chi guida, anche se poco ci manca, bensì vuole indicare la provenienza dell’automobilina e con ogni probabilità anche quella del conducente: Como, una ridente cittadina che sorge sul lago omonimo, dove evidentemente il termine autoscuola viene preso alla lettera. Statene alla larga, perché rischiate di perdere una vita senza motivo. Un mio amico appassionato di questo gioco mi ha già dato la soffiata sul terzo livello, ambientato di notte. In questo caso i pericoli da affrontare sono: l’incontro con il camion della Nettezza Urbana con malefici netturbini impegnati a scaricare sacchi neri della spazzatura per creare ostacoli sulla vostra strada, incrociare una macchina senza fari accesi o una macchina dove a prima vista sembra non esserci fisicamente un conducente ma un’entità invisibile, ma se poi guardate bene all’interno due bulbi oculari bianchissimi di un senegalese vi stanno osservando.
Un consiglio da chi ci ha giocato: se scegliete come mezzo lo scooter, c’è il problema che al secondo livello dove diluvia dall’inizio alla fine, il parabrezza montato come optional dia modo di perdere le tre vite a disposizione, in un paio di minuti; tuttavia, il mezzo garantisce un minor tempo per coprire la distanza. Al terzo livello non ci sono arrivata ma stamattina, sotto il diluvio, in redazione sono arrivata puntuale.

19 January 2007

Come sono diventata verde con i Fanghi Gnam

A quasi sei mesi dall’apertura di questo spazio felino in rete, ritengo sia giunto il momento di dare qualche spiegazione. Lo sfondo color verde pisello di questa homepage non è un caso ma frutto di una scelta oculata. L’immagine di una porzione limitata di me stessa fa seguito alla considerazione per la quale, se si vedesse il resto, forse non si registrerebbero più accessi a questo spazio virtuale.
Ho la pancia verde. In verità, sono tutta verde. Già. Dalla testa ai piedi, da sei lunghi mesi. All’inizio è stata dura. Il solo pensiero di essere verde come l’orco Shrek, Carletto il camaleonte dei Sofficini, Kermit dei Muppets, l’incredibile Hulk o il piccolo Chobin mi faceva verde dalla rabbia. Poi ho pensato ai Simpsons, ai Puffi e ai Barbapapà (dove non ne esiste uno verde…) e non mi sono sentita più così sola. Forse il verde porta anche un po’ di notorietà.
Tutto ha avuto inizio un giorno della scorsa estate, una settimana prima della partenza per le tanto agognate vacanze. Prova costume e altre mille paranoie da femmina, mi avevano teletrasportato in un’erboristeria da cui, dopo poco tempo, uscivo con una confezione di miracolosi Fanghi d’alga Gnam in mano. Secondo quanto enunciato sul foglietto illustrativo all’interno della scatola, questo ammasso limaccioso garantiva risultati immediati come la diminuzione degli inestetismi cutanei e adiposità della pelle. Già dalle prime applicazioni.
Due brevi calcoli per capire che: A) avevo solo una settimana B) volevo un effetto immediato C) era necessario un trattamento d’urto.
Arrivata a casa non avevo perso tempo. Il terrore di ottenere un risultato immediato ma non omogeneo fece sì che in quella occasione non venisse risparmiato neppure un centimetro quadrato della mia epidermide e in pochi minuti, ero ricoperta di fango, avvolta in cellophane come un salame di cioccolato poggiato sul ripiano intermedio del frigorifero. Le istruzioni d’uso prevedevano una seduta di 45 minuti. Solo tre quarti d’ora? Neppure il tempo di guardarsi una puntata di Star Trek. Decisi che avvolta come una soppressata, potevo anche passarci la notte intera (considerando il rapporto direttamente proporzionale tempo-efficacia). Il mattino seguente, al suono cantarino della mia sveglia (avuta in regalo con l’ellepi “Resta vile maschio, dove vai?” di Rino Gaetano anno 1979), mi era sembrato di sollevarmi dal letto del Nilo e, liberandomi dalla guaina fatale, iniziavo a vedermi sempre più verde.
Il primo giorno, nonostante fosse fine luglio, mi ero recata sul posto di lavoro piuttosto coperta, giusto un paio di jeans e una dolcevita manica lunga, dichiarando di aver mangiato qualche cozza poco convincente e di aver accusato qualche problema di digestione notturna.
Accorgendomi che l’effetto verde non dava segni di cedimento, mi recai da un dermatologo.

“Si tratta di un caso molto raro di intolleranza alle alghe. Di recente ne ha mangiate?”
“Forse qualche alghetta in qualche sushi bar”
“Nahhhh, nei sushi bar non si corrono rischi. Devono essere proprio i Fanghi Gnam. Quelli non lo ha mangiati, vero?”
“No, me ne sono ben guardata”
“Non si preoccupi. Tempo sei mesi e il verde scompare”


Non mangio più California Maki. Non riesco neppure a guardare l’insegna di un qualunque sushi bar. Mi lavo solo con il Bio Shout Scioglimacchia. E sono verde dalla rabbia.

17 January 2007

Teoria dei campi di forza tra scrivanie

In Fisica avevo 5. In terza liceo non mi hanno rimandato per non peggiorare ulteriormente l’incresciosa situazione materie a settembre che mi vedeva già rimandata in matematica e chimica. Il fatto è che, a me la fisica non è mai piaciuta. Tanto che all’uscita delle materie da portare alla maturità, ho preferito portare storia pensando mi sarebbe tornata utile in futuro a risolvere parole crociate de La settimana Enigmistica o ad azzeccarci con le domande di Gerry Scotti in Chi vuol essere milionario?
Trovavo indigesti gli esperimenti in laboratorio con pendoli e palline di piombo, odiavo sui libri di testo le macchinine colorate che si scontravano ad alta velocità e i cacciatori che davano dimostrazione di rinculo sparando a destra e manca. Tuttavia, capirci qualcosa sarebbe stato utile perché a ben pensarci, ogni santo giorno, ci troviamo immersi in questa benedetta materia. Unità di misura, vettori, principi di termodinamica o grandezze fisiche come lo spostamento, il tempo, la velocità. Io devo fare i conti con una discreta quantità di forze e resistenze fin dalla mattina, quando appoggio il mio didietro sulla sella del Liberty.
Tuttavia, entrando in redazione stamattina mi sono imbattuta in un’altra entità fisica: i campi di forza. In soldoni, per me che non so nulla di fisica, sebbene uscita da un liceo scientifico (fisicamente e con voto di maturità), sembrerebbe che le forze si manifestino a contatto tra i corpi, come nel caso di urti e attriti, ma che si possa verificare il caso che due corpi esercitino una forza reciproca anche a distanza, senza alcuna interazione. Da ciò, la teoria del campo di forze, teoria per cui, nel caso della forza di gravità si suppone che un corpo di una certa massa possa modificare lo spazio intorno a sé, così come, nel caso di due forze elettriche, queste possano essere attrattive, tra cariche di segno opposto, o repulsive, tra cariche dello stesso segno.
Allora perché quando due persone si trovano bene assieme si dice c’è chimica? Non sarà tutto invece riconducibile alla fisica? È una questione di atomi e per questo si parla più grossolanamente di chimica o è una questione di campi di forza? Il lato curioso della questione è quanto un campo di forza possa essere realmente indotto o no. Alcune persone si attraggono o si respingono per qualche ragione (questione di pelle, si dice), ma credo si possa creare un campo di forze ostile, indipendentemente dalla nostra natura, semplicemente rendendosi antipatici, un po’ come la Donna Invisibile di Marvel, quella con la tutina blu come Alcor di Goldrake. Non che fosse antipatica, ma aveva lo straordinario potere di creare a piacimento campi di forza invisibili intorno a sé, oltre alla facoltà di diventare invisibile. Pensate un attimo al collega d’ufficio che si lamenta a bassa voce, che borbotta di continuo, che parla male di tutti e ogni mattina vi saluta come se si fosse rovesciato un thermos di caffe addosso. Se non crea un campo di forze estremamente negativo intorno a sé, spiegatemi come si verifica che in poche settimane nessuno ci faccia più la pausa caffè insieme o ci vada a mangiare un toast a pranzo. Negli anni mi sono impratichita anch’io di campi di forza intorno alla mia scrivania, riuscendo nell’audace impresa di non far avvicinare nessuno al mio scribacchio, se ho voglia di rimanere in pace. È un’abilità da acquisire nel momento in cui si firma un contratto che prevede 8 ore al giorno di vita in un ufficio. Dovrebbe comparire tra gli skills richiesti dalle aziende e, per tale motivo, dovrebbe essere diligentemente elencata nel proprio cv. Non è difficile, basta non alzare troppo gli occhi dal monitor, rispondere a monosillabi o nei casi di emergenza, alzare il ricevitore del telefono e chiamare la mamma o la nonna, fingendo si tratti di un’importante telefonata di lavoro. Forse non sono gli stessi campi di forza della Donna Invisibile, ma sono efficaci. Certo potessi avvalermi della facoltà di diventare all’occorrenza, invisibile, credo che inizierei a non partecipare a molte riunioni…

12 January 2007

Tre, due, uno ...libera!

Tutto cominciò con E.R. Medici in prima linea. Per chi non lo avesse mai visto ( c’è tanto di cofanetto da Blockbuster), si trattava di un Pronto Soccorso nella città di Chicago, dove arrivavano i casi clinici più assurdi, e dove, una certa abbondanza di sangue, pazienti intubati e le tresche personali del personale medico creavano un humus interessante perchè anche una sola puntata persa della suddetta serie si trasformasse in una tragedia. A distanza di anni, dalla testa di qualche altro autore tv sono saltate fuori altre serie come Dr. House, Gray’s Anatomy o Scrubs. Ops… dimenticavo Medico in Famiglia, ma questo, giuro, non l’ho mai visto.
Come si spiega che, superata la prima esitazione a vedere un episodio di una di queste serie (il sangue mi impressiona… C’è Distretto di Polizia sul cinque… Se devo piagnere me’ guardo la De Filippi…), alla fine si finisce per guardare tutte le puntate? Io, in prima linea, per stare in tema.
Perché? Una prima ragione può risiedere nell’avvenenza di qualche interprete e al fascino, sempre irresistibile, del camice bianco e di uno stetoscopio intorno al collo. Io ho guardato E.R. principalmente per il Dr. Carter, lo ammetto. E al camice bianco non è facile rimanere indifferenti. Per anni mi sono sottoposta a molteplici e superflui controlli di un oculista, per questo motivo. Un dì, si tolse il camice e scoprii che aveva un sedere largo quanto quello della cassiera del Conad sotto casa (è uno dei rischi del mestiere) e da quel momento i controlli sono diventati frequenti quanto i tagliandi della mia auto.
Seconda ragione. Episodio dopo episodio, in qualche modo, ci si affeziona alla trama e un pochino si è anche curiosi di vedere come andrà a finire, se il primario scoprirà di aver ingravidato l’anestesista, se questa terrà il bambino o no, se l’inserviente smetterà di rubare rotoli di carta igienica dai w.c. dell’ospedale.
E forse, sotto sotto c’è anche qualcos’altro. Forse ci si vorrebbe capire qualcosa di più, di quello che succede negli ospedali, del linguaggio incomprensibile dei medici, come semplicemente sapere che la Sindrome di Marfan o il Morbo di Chron non hanno niente a che vedere con il Test di Yasso. O forse c’è un timido tentativo di superare certe paure. Qualsiasi ospedale o clinica non è certo un bel posto dove recarsi e, se ci pensi bene, se ci vai è per andare a visitare qualcuno (che non sta bene) o per te stesso (che non stai bene). In entrambi i casi, preferirei andare da qualche altra parte.

Motivi di gaudio per recarcisi?

1. Entrare con una prima di seno e uscire con una terza abbondante
2. Entrare da marsupiale e uscire con 5 chili in meno e con qualcosa in braccio
3. Un appuntamento con il sopracitato Carter

Tuttavia, la vita è piena di sorprese, se mi si permette e, può capitare di trovarsi in questi corridoi lunghi e stretti, con pazienti e famigliari di pazienti un po’ dappertutto, e capita che ogni tanto l’occhio cada (in senso lato, ovvio) su qualcuno che si trova lungo disteso su un lettino parcheggiato in corridoio. Umana e morbosa curiosità. La paura di vedere la reale sofferenza, però, fa sì che i bulbi oculari si dirigano subito altrove.
Un giorno (perché ci ho passato proprio tutta la giornata) mi ci sono trovata pure io, in un E.R. Italian Style e ho assistito a un vero Reality Show (altro che serie tv). Dopo ore che me ne stavo lì ad ascoltare le storie di tutti, femori spaccati, incidenti stradali e accoltellamenti, mi hanno parcheggiato affianco un uomo, immobile, bello disteso su un lettino. Dormiva? Era in stato di incoscienza? Era morto? Chi può dirlo. Stava lì. Dopo un paio di ore me lo sono ritrovato al piano di Radiologia. Aveva cambiato posizione, quindi almeno morto non lo era.
Sì, gli ospedali fanno cagare un po’ in mano. E.R. poteva essere ambientato solo a Chicago. E pensare che medici e dottori abbiano qualcosa di umano, consola un poco.

10 January 2007

Yoda Moda Magazine

È definito compromesso l’accomodamento fra due o più persone, in cui ciascuno dei partecipanti rinuncia a una parte delle sue richieste, rivendicazioni e simili. A scendere a compromessi siamo abituati fin dalla tenera età, quando di fronte a un piatto di pastina impiastricciata di Formaggino Mio, mi sentivo dire che se avessi mangiato tutto avrei potuto continuare a dilettarmi in camera mia con i mattoncini Lego, permesso concesso di abbandonare i membri famigliari riuniti intorno al tavolo. Il problema è che prima di raggiungere un compromesso con dei terzi, occorre raggiungerlo con sé stessi, affinché l’abbandono di richieste, rivendicazioni e compagnia bella siano accettate in primis da noi. Ora, l’unico compromesso a cui sono scesa è che non mi abbia creato degli scompensi uterini è stato un preventivo di vendita, altresì detto compromesso immobiliare, situazione in cui quasi ci si trova contenti di fare un assegno, non senza timori e relativi incubi notturni su probabili e prossimi periodi di carestia, rinunce e sacrifici. Un compromesso, appunto. Di tutto questo, ciò che mi allarma di più è quanto si sia disposti a scendere a compromessi in nome di questo adattamento che,sì, qualche vantaggio lo porterà pure, ma è pur sempre un adattamento e non so quanto questo abbia più valenza negativa che positiva.
Mi spiego. Scrivo in una rivista specializzata che si occupa di una nicchia stitica del settore moda e non scendo in ulteriori particolari per non avere un attacco di bile di primo mattino. Il valore aggiunto di questa situazione è che appartengo a una ristretta e fortunata cerchia di persone che, per casi fortuiti e incidentali, rientrano per 18 mesi nella casta di praticanti giornalisti. Ora dovete sapere che se ci si trova in questa situazione ci sono alcuni concetti da tenere ben impressi nella mente, come post-it sulla fronte:

1. Riverenza: deve essere assoluta nei confronti di figure quali l’editore e/o il direttore, in nome della gentile concessione di suddetto contratto giornalistico, nonché verso il responsabile ufficio personale, per la semplice azione di aver lanciato la stampa del contratto stesso.
2. Inadeguatezza: siete praticanti, non sapete scrivere, conviene rassegnarsi all’idea.
3. Stipendio: non partecipate ad alcuna Salary Survey propinata in rete, il rischio è di cadere in profonda depressione.
4. Orario: dimenticate il tradizionale 9-18. Anche nel caso ti trovassi, a fine giornata, con in testa due soli neuroni che giocano a Pongo, è impensabile uscire dopo solo 8 ore di lavoro.

A tutto ciò, si aggiunge la questione: lavorare in una rivista di moda, quando di moda non te ne importa un fico. Oltremodo, pur consapevole della condizione di paria (punto 3), davanti all’immagine di una scarpa Gucci o un borsa Prada, sarebbe convenzionale e opportuno un commento del tipo: “oddiomio che gioiello….”, “ooohhh, hai visto che collezione ha presentato Gino Straffoni per la prossima primavera estate”. Io non ci riesco, ma resta il fatto che un anno fa sarei stata disposta a praticare anche da Camper&Caravan.
Non mi dilungo oltre. Potrei perdermi in questioni su quanto un compromesso possa finire nel trasformarsi in un tradimento verso se stessi o su cosa succeda quando i compromessi si insinuano nelle relazioni personali.
Giorni fa, un collega, mi ha rimesso a posto le Tube di Falloppio (leggasi come concetto figurato), argomentando sulla possibilità di scrivere o meno anche di ciò che non amiamo, e che tutto ciò sia lecito. Non lo si farà altrettanto bene rispetto a un argomento che ci appassiona, ma non per questo, per forza se ne scriverà male. Teoria tanto applicabile alla scrittura, quanto non ai rapporti umani. Risultato: ho rafforzato il mio ego scribacchino, e con uno Yoda scalpitante sulla spalla destra che ripete all’inverosimile “Che la forza sia con te”, sono in redazione a scrivere di lustri e lustrini.

08 January 2007

Ce lo dice Hillman. A me, però, lo ha detto Ste…

Il mio amico Ste mi sorprende sempre. Lo conobbi, non tanto tempo fa, ad una festa di paese di fine giugno, mentre distribuiva pizzoccheri a destra e manca (sì, sì a giugno). Già, perché dovete sapere che lui di professione fa il pastaio. Ma non è questo l’unico motivo per cui, spesso e volentieri, si trova partecipante attivo di feste e sagre, a scolare pasta a chili (prima di natale l’ho beccato anche impegnato con la polenta taragna), difatti, di seconda professione, il mio amico Ste è anche Consigliere Comunale. Così tra una polemica e l’altra, se mandare via gli zingari dal campo nomadi o se mettere più o meno ricotta nei cannelloni agli spinaci, il mio amico è il concreto esempio di un buon cittadino impegnato nella vita politica del proprio paesello, nonché curante della buona gastronomia e del gaudio palatale dei concittadini.
Sta di fatto che l’altro giorno sono passata a fargli un saluto e in vetrina ho visto un libro, ma non ci ho fatto troppo caso e ho pensato solo alla mia razione quotidiana di rosette panna e prosciutto, specialità di casa.
“Sicura che non vuoi anche dei gargherozzi da fare con uova e salsiccia?”
“Noooooo, mi tengo leggera con tre etti di rosette. Grazie”
“Va beh. Non è che vuoi un libro?”
“Un libro di che? Di ricette? Io non cucino.”
“Lo so. Ma no, non è di ricette…. Ce lo dice Hillman, qualcosa del genere…”
“Chi lo dice chi a chi?”
“Bah. Mi pare che sia di tre tizi che scrivono su un blog che appunto si chiama Ce lo dice Hillman
“E che me ne faccio?”
“Lo leggi”
“E tu che te ne fai? Lo hai letto?”
“No, ma è bello. E poi sta bene in vetrina affianco ai ravioli e agli agnolotti.”
“Allora dammene una copia, magari sta bene anche sul ripiano della mia libreria”.
Ora, ispirata dallo spirito imprenditoriale del mio amico Ste, pastaio, consigliere comunale e uomo acculturato (perché vende libri, non perché siede in consiglio) ho deciso che non solo potrei proseguire nel mio lungo calvario di giornalista praticante e aprire un gattile ma, in attesa dell’arrivo del colosso Starbucks nel nostro paesello, ho deciso di aprire un Lino’s Coffee Shop. Per chi non lo sapesse, trattasi di un marchio che sta aprendo punti vendita a raffica su tutto il territorio, dotando i propri spazi di connessione Internet proprio come il marchio Starbucks e dove si pratica anche il bookcrossing, ossia prendere e lasciare libri a gratisse, per stimolare un po’ di cultura tra ‘na tazza di caffè e una di cappuccino. Fatemi capire. Com’è che se lo si chiama Da Lino, Gennarino o Giuseppe, allora viene accolto a braccia aperte, se lo si chiama Starbucks è visto come un immondo dalle zampe a capretto? Ad ogni modo, ho compilato il mio questionario on line per aprire un punto vendita rispondendo a domande sulle mie esperienze professionali in campo Food, sul mio attuale stipendio, sul mio patrimonio e tra tutte, mi è stato chiesto anche se il mio coniuge/convivente parteciperà alla gestione del locale. Quindi essere singoli è una nota di demerito anche nell’imprenditoria? Qualche dubbio ce l’ho. Io ci provo. Se proprio va male, un piatto di pasta dal mio amico Ste lo trovo sempre.

04 January 2007

Befana? Datemi retta, meglio crederci

Per essere sicura di non dimenticarmene, ho già appeso la mia calza sul calorifero, non avendo un caminetto. Domani notte, tra il 5 e il 6 gennaio, salvo condizioni meteorologiche nefaste, dovrebbe arrivare la Befana. Se Babbo Natale non mi ha mai troppo convinto, io, alla Befana, ho sempre voluto un po’ crederci. Non per pazzia, ma perché mi riporta un po’ in pace con me stessa, un po’ come una sessione di Tantra Yoga di tre ore.
Ricordo ancora quando, suppergiù all’età di sei anni, alla vigilia dell’Epifania mi svegliai in piena notte per dei rumori provenienti dalla cucina. Come era mia abitudine, se avevo qualche esigenza impellente come dover fare pipì in bagno o chiedere un bicchiere d’acqua non mi alzavo mai dal letto, ma interpellavo famigliari e parenti alzando la voce giusto di qualche tono dal mio lettino (in modo che potessero accorrere i miei vicini di casa, se i miei genitori non di fossero degnati di alzarsi).
Gaico Jr.: “Papà, c’è qualcuno in cucina!”
Dalla camera dei miei genitori, mio padre, appena destato dal sonno, con la voce pari a un Orso Grizzly riemerso da qualche minuto dal letargo di sei mesi, mi rispose: “Dormi. È la Befana, che sta riempiendo la tua calza e quella di tua sorella”.
A posto. Avevo sei anni e non feci altre domande. Ero soddisfatta dalla risposta. Nessuna ombra di dubbio, evidentemente, in cucina c’era proprio la Befana. Neppure mi chiesi dove cavolo fosse mia madre in quel momento. Poteva forse balenarmi il dubbio che invece che trovarsi nel suo di letto, fosse in cucina a riempire di caramelle, cioccolatini e carbone le nostre calze?
Macché. Perché farsi domande inutili? La mattina seguente mi sarei comunque svegliata, contenta e felice come una Pasqua (anche se fuori luogo), trovando un bottino cospicuo di dolcetti con cui ingollarmi tutto il giorno.
E tutto sommato, si stava meglio. Perché poi crescendo, tutti iniziano a farsi prendere da dubbi e incertezze, stati di ansia, paranoie e seghe mentali di ogni genere e natura. Ma conviene? Porta a qualcosa? Sì, porta a molti esperti di parapsicologia, psichiatria, cartomanti e chiaroveggenti ad avere un reddito considerevole.
Da poco ho letto che alcuni ricercatori della Washington University si sono incapponiti nello studio di alcune aree cerebrali preposte a una delle attività più tipicamente umane, ossia la proiezione nella mente verso gli eventi futuri. Hanno così scoperto che quando la mente guarda al futuro, le aree cerebrali attive sono la parte laterale sinistra della corteccia, il precuneo sinistro e la parte posteriore destra del cervelletto. Sarebbe curioso adesso scoprire che queste aree cerebrali non sono tanto sviluppate in una bambinetta di sei anni…
Poi se domani notte, fossi investita da tutt’altra Epifania, più sulle idee generate da un cervello poco complicato come quello di Joyce…
Ma forse è meglio creder a una vecchia in gonnella, a cavalcioni di una scopa.

02 January 2007

Apre il gattile “Porgi una zampa”

Quest’anno (o l’anno scorso?) ho deciso di passare il giorno di San Silvestro (patrono di un posticino noto come Collepino, per chi non lo sapesse) a Il Bonsai di Shangai, un ristorantino cinese senza pretese della zona Sarpi. Per festeggiare il primo anno di attività, il mio amico Ye Lang, nonché gestore del locale, ha messo in piedi una festicciola, dove non sono mancate leccornie come i tradizionali involtini primavera, tranci di maiale alla soia, pezzi di anatra laccata di Pechino, grappa cinese per digerire il tutto e, per l’occasione speciale, biscotti della fortuna. Secondo la tradizione cinese i biscotti della fortuna sono dei dolcetti che all’interno racchiudono un biglietto con un augurio o un consiglio per il futuro. Così, poco dopo la mezzanotte, mi sono ritrovata a mordere il mio biscotto, nella speranza di trovare qualcosa di più entusiasmante del contenuto dei Baci Perugina. Ho trovato questo:

In un gattile vi sono 160 gatti; il 20% dei gatti è nero e il 25% dei gatti ha gli occhi gialli. Quale di queste affermazioni è sicuramente falsa:

A) 30 gatti sono neri con gli occhi gialli
B) 35 gatti hanno gli occhi gialli e sono neri
C) nessun gatto nero ha gli occhi gialli
D) tutti i gatti neri hanno gli occhi gialli


Superata la delusione iniziale, i dieci minuti successivi li ho passati a confrontare il mio bigliettino con quelli dei presenti, confermando il sospetto di essere stata l’unica a trovare nel mio biscotto, un quiz da Olimpiadi della Matematica. Le tre ore successive le ho passate a tentare di risolvere il suddetto quesito. Il mattino seguente, mi sono svegliata senza la soluzione, ma con l’idea di aprire un gattile. Come avevo potuto non pensarci prima? Si parla di imprenditoria femminile, siamo all’inizio dell’anno, si fanno progetti, si fissano obiettivi… ci sono gatti dappertutto e adesso, anche i 53 gatti di Hemingway sono sotto sfratto nel loro villino a Key West, in Florida. Altro che illuminazione del Buddha. Qui, tra biscottini della fortuna e badilate di lenticchie ingoiate per propiziarsi l’anno, l’aria di Business stava tutta in quel bigliettino augurale. Così ho fatto alcune ricerche e ho trovato un socio. A breve la notizia sui giornali.

"...Mancano pochi giorni per l’inaugurazione del nuovo Gattile “Porgi una zampa”. Ciotola e pasto caldo assicurato a tutti i gatti del circondario e forestieri. Per soggiorni di più giorni (in verità si calcolano le notti), si assicura all’ospite anche una lettiera, il tutto a modico prezzo di 20 euro al giorno (alla fine è meno di uno ski-pass). Menu speciali da concordare (per chi lo volesse, è disponibile anche uno speciale Chinese Food Menu a base di aringhe in agrodolce). Il gattile “Porgi una zampa” è gemellato con il Gattile Pipistrello (la prima cosa dopo la posta a sinistra) a Lopagna, Repubblica Elvetica, più conosciuto come Katzen Ferienpension. Avvalendoci dell’esperienza della signora Hunziker, non quella dello spettacolo, il soggiorno del vostro gatto sarà piacevole quanto una settimana alle Barbados con il Club Med. Ingresso a numero chiuso, previa risoluzione di un test tematico semplice, semplice..."
Altrimenti potete andarvene al Katzen Ferienpension (o Gattile Pipistrello).