24 September 2007

Ho visto Freud imballare una Samsonite

Esistono diversi tipi di viaggiatori. E questa, è la cosa più ovvia che potessi scrivere, perché basta guardarsi attorno in un qualsiasi aeroporto per capire che è proprio così, sulla base del fatto inconfutabile che esistono diversi tipi di persone. Il mondo è bello perché è vario. Ma tra i viaggiatori la prima distinzione si evidenzia subito dal tipo di bagaglio con cui si accompagnano. Nell’immediato, a quanto è grande o piccolo, ma questa è distinzione riproposta anche in altri ambiti.
Un nota compagnia low cost spagnola ha adottato come misura cautelativa al check-in un contenitore di metallo dove cercare di incastrare il proprio bagaglio a mano: se entra può essere imbarcato, se non entra viene spedito. Immaginate con quale forza e prepotenza, il viaggiatore medio intenzionato e motivatissimo nel non spedire il proprio bagaglio, se la piglierà con il contenitore in questione cercando in tutte le maniere di spingerci dentro uno zaino Invicta da 50l. Distinzione successiva, sul contenuto. Prima delle vacanze ho avuto il piacere di leggere articoli e vademecum a proposito del "Pronti a partire? Ecco cosa mettere in valigia". I consigli di solito si sprecano sul piccolo Pronto Soccorso da viaggio che occorre mettersi in valigia nel caso dovesse accadere il peggio. Sarò un po’ fatalista, ma se in un anno mi prendo in media un raffreddore, un mal di gola e due o tre attacchi di mal di pancia, quante probabilità (o sfiga) ho di prendermi qualcosa in solo due settimane di vacanza. Non importa. I previdenti si muniscono di aspirine, tachipirina, analgesici a effetto imediato e una purga. I più ipocondriaci ci aggiungono due boccette di disinfettante per il cavo orale, una profilassi delle infezioni uretrovescicali e due o tre varianti di inibitori del tratto intestinale, dall’Imodium al Dissenten, per evitare l’immobilità da dissenteria. Tanta attenzione per quello che si mette in valigia ma non per quello con cui si ritorna. Non penso a quegli affascinanti e indispensabili ninnoli di avorio per cui, senza pensarci troppo, vengono abbattuti troppi elefanti, ai rametti di corallo spezzati impietosamente da un barriera corallina, a conchiglie e chincaglierie varie importate per il piacere di sostituirle alle candele colorate di Ikea. Penso a quello che si può trovare in un viaggio, luoghi e persone. Soprattutto persone. I luoghi si possono sempre rivedere, le persone si possono perdere.
Possono rimanere là dove si sono conosciute. O semplicemente possono tornare da dove sono venute, come del resto facciamo un po’ tutti. Partire per tornare, sempre. In valigia le fotografie, in testa i ricordi, nel cuore le emozioni. Tutto con l’illusione di ricordarsi sempre, di tenere sempre vivo il ricordo. Di mantenere in piedi amicizie e relazioni, sperando che il contorno sia sempre lo stesso, quando non potrà più essere così. Ho trovato un amico, l’ho perso al ritorno. Divisi nel momento in cui ognuno ha preso in mano il proprio bagaglio. Cosa ci fosse all’interno lo abbiamo scoperto solo una volta tornati a casa, quando lo abbiamo aperto.
Un volo di sola andata, grazie. Per smettere di perdere persone per strada.

si dice che Chi in viaggio perde il biglietto del ritorno, in verità, non vuole tornare

18 September 2007

Processo di criomacerazione in corso

La superficie dei ghiacci polari è passata da 7,2 a 5,9 milioni di chilometri quadrati, con una riduzione del 18 per cento circa in meno di trent’anni. E ci volevano dodici religiosi tra vescovi, musulmani, rabbini e induisti, riuniti in preghiera di fronte al ghiacciaio Sermeq Kujalleq per occupare quasi un’intera pagina di Cronaca di un quotidiano di sette giorni fa. I ghiacci dell’Artico sembrano essere destinati a dimezzarsi entro il 2050 e forse, a scomparire del tutto entro fine secolo, a causa delle emissioni di CO2 in crescita e delle temperature in aumento. Non che sia tra le mie prime ambite destinazioni per un’ipotetica vacanza a Natale, ma mi dispiacerebbe se, una questione come quella dei ghiacci destinati a sciogliersi, passasse inosservata. Eppure, tutto sembriamo, meno che attenti all’arte del congelamento. A partire dall’alimentazione. Nel regno dove dominano incontrastati I 4 Salti in Padella, tra mattoncini di merluzzo e medaglioni di nasello, dischetti del curling al sapore di hamburgher, verdure grigliate, minestroni a blocchetti, vaschette di gelato dal gusto dubbio e indefinito, credo che il freezer di famiglia, progettato per contenere più prodotti surgelati possibili incastrati a dovere, risolva il dilemma del “Cosa faccio stasera per cena?” di tre donne lavoratrici su quattro.
L’intolleranza verso le temperature estive si traduce in una corsa all’acquisto di condizionatori, ventilatori e pinguini; e non si tratta di casi di adozione a distanza dell’ultimo animale monogamo esistente sulla terra, perché per il momento nessuna ONG si è ancora preoccupata di creare tale opportunità; probabilmente perché i pinguini, un po’ impacciati nella coordinazione dei propri arti, avrebbero delle difficoltà a scrivere una letterina di ringraziamento ogni sei mesi, tanto meno riuscirebbero a fare un disegno decifrabile dopo i saluti e i ringraziamenti finali.
Io, un pinguino, lo adotterei subito. Gli pagherei il biglietto solo andata Polo Sud - MXP, lo aspetterei in aeroporto e caricandomi la sua valigetta di cartone in macchina e lo porterei a casa mia. Mi manca però la vasca da bagno e il coraggio di doverlo tenere nel lavandino della cucina per rammentargli di tanto in tanto, cosa significa farsi un tuffetto al largo.
Congelare per preservare, difendere, per mantenere paradossalmente qualcosa in vita, o per garantirne una futura, se si decide che lavoro e carriera sono più importanti. Congelare per controllare, reprimere, frenare e contenere un processo in atto fuori dal proprio controllo, un processo di criomacerazione di sentimenti in piena regola, per quanto non so cosa ne possa venire fuori di buono. Non riesco proprio a schierarmi, se sia giusto o sia sbagliato, convinta che difendersi dall’esterno sia congenito, ma che fatto in modo estremo, non sia naturale. In confronto, adottare un pinguino è una passeggiata di salute. E mentre il frigorifero di casa segna correttamente la temperatura ideale di conservazione degli alimenti a 4°C e un Pinguino (non quello che sguazza nel lavandino della cucina) butta fuori aria refrigerante, l’Artico continua a sciogliersi.

10 September 2007

Diamoci da fare Shultz

Abitudini ormai consolidate da anni. Riti osservati ormai scrupolosamente ogni giorno. Tentazioni soddisfatte e innocenti strappi alla regola che deliziano la vita ordinaria. Ognuno di noi rispetta, ogni giorno, modeste consuetudini che in qualche modo addolciscono l’esistenza. Io le chiamo celebrazioni di me stessa. Un po’ come se mi premiassi da sola per quello che sono e che faccio ogni giorno. Non per essere egocentrica o megalomane ma, se non ci penso io, non credo lo farà il mio editore, così mi porto avanti e lo esimo da questo compito. Di recente nella mia lunga lista di piaceri che mi concedo quotidianamente, approfittando di una promozione di 10 giorni, ho introdotto Oresette del Corriere. Puntuale alle 7 del mattino, da un paio di giorni trovo il quotidiano infilato nella buca della cassetta della posta. Sublime sarebbe riceverlo direttamente sullo zerbino di casa, ma a breve conto di convincere qualche vicino di pianerottolo, per accrescere l’adesione condominiale al servizio e motivare l’omino di Oresette consegnandoli le chiavi del portone di ingresso per una consegna collettiva. A quel punto potrei aprire la porta di casa, raccogliere il giornale e sedermi a colazione senza molestare più del necessario il mio apparato muscolare. Per adesso sono costretta a scendere quasi in strada, in uno stato di dormiveglia imbarazzante per me e per chi ha la sfortuna di incontrarmi.
Altro piacere condiviso dai più, il caffè. A ciascuno il suo, disse qualcuno prima di me. Macchiato caldo o freddo, ristretto o lungo, espresso o decaffeinato, marocchino o d’orzo. Ognuno trasforma quello che nel nostro paese è un rito, in un piacere ritagliato a misura delle proprie papille gustative. Un paio di giorni fa veniva pubblicato su La Repubblica un articolo sul business del caffè, illustrante una sorta di guerra – shakerata fredda - tra aziende e colossi industriali intenti a trasformare chicchi di caffè in pepite d’oro. La giornalista citava realtà di antica tradizione come Illy, Lavazza e Zanetti (niente a che vedere con calciatori improvvisati imprenditori) e catene americane come Starbucks. Secondo il parere della (spero) futura collega il mondo si divide in due: quelli che il caffè lo gustano lentamente, seduti, leggendo il giornale con calma e quelli che lo buttano giù per il gargarozzo, addirittura per strada. Guarda caso, mentre la prima categoria ha per rappresentanti gli amanti della tazzina, la seconda categoria viene associata a Starbucks.
Io faccio colazione a casa, ma le rare volte che ho provato a farla in un bar della mia città, mi sono trovata a dovermi conquistare il bancone a spallate, pari a quelle viste a un concerto dei Pogues; per poi stare in piedi, a una vicinanza a dir poco metropolitana (nel senso di mezzo pubblico) con gli avventori del bar, in difficoltà sul dove posizionare il braccio della mano reggente il cornetto alla crema. Le ancora più rare volte che ho fatto colazione da Starbucks, rispettivamente a Londra e a Valencia, ero seduta a un tavolino, con un caffè americano in bicchierone di carta, muffin ai mirtilli, giornale e connessione internet a disposizione. Più che dover buttare giù velocemente un caffè, devo buttare giù la triste realtà che Howard Shultz, il presidente della società, ha avuto l’idea di aprire questa catena proprio visitando il nostro paese negli anni ’80. Ironia della sorte, proprio qui non è ancora stato aperto un punto vendita; peccato, aggiungerei volentieri alla lista delle celebrazioni di me stessa un quotidiano bicchierone di carta con tappo di plastica.

05 September 2007

Latte scaduto? Ancora non ha ammazzato nessuno

Tanto per cominciare bere latte scaduto non ha mai ammazzato nessuno. Così come lo yogurt, a meno che non sia rimasto due giorni sul cruscotto della vostra auto nel mese di luglio. Percorrere i tre metri che separano la scaletta della vasca al trampolino della piscina non corrisponde a un invito a un party (in piscina) di una colonia di papillomavirus (comprovata causa di verruche). I fantomatici surgelati da mangiare assolutamente una volta tolti dal freezer? Certo, è una buona regola. Ma quante volte saranno già stati scongelati incidentalmente per poi essere di nuovo congelati nei vari passaggi tra produttore, distributore e supermercato finale? Mi sembra di ricordare pochi giorni fa un ometto incaricato della consegna di prodotti Bofrost discutere animatamente con un autista per via di un parcheggio, con lo sportellone del furgoncino spalancato. Io, attentissima a certi comportamenti così poco appropriati, a fatica mi sono trattenuta dall’andare a chiuderlo. E poi, fare il bagno dopo un panino, se tra le due fette di pane non giacevano peperoni e porchetta, non spinge nessuno giù negli abissi dei Lidi Ferraresi. Insomma, le due ore canoniche da rispettare perché il bolo alimentare concluda il proprio viaggio nei meandri dell’apparato digerente, potrebbero essere sostituite dalla percezione personale (nonché conoscenza del proprio stato fisico) di avere più o meno lo stomaco pieno. Quest’anno ho anche preso la tintarella con creme solari le cui confezioni erano state aperte l’anno scorso e, miracolo, sono scampata a eritemi, pruriti e complicazioni varie. E le scadenze? Causa di stress e perdita di capelli nei soggetti più esposti al problema. Bollette del telefono, della luce, del gas e dell’acqua, revisioni auto, spese condominiali, multe e rinnovi contratti. Non ho pagato la bolletta dell’acqua per sei mesi e sono sempre riuscita a prepararmi un caffè americano a colazione; ho dimenticato per un anno di fare la revisione del mio mezzo a quattro ruote e (accenderò un cero a Fatima) non mi hanno mai fermata; tra l’altro, ora ricordo di non aver ancora pagato una multa presa nel Comune di Madesimo due anni fa per un divieto di sosta. Ho mangiato sei formelle di Weetabix in una sola sera, superando la dose giornaliera di benessere consigliata (due formelle), ripagando l’ingordigia verso il frumento integrale con qualche crampo alla pancia e una sosta un po’ più prolungata dans la salle de bains. E lo ammetto. Spesso e volentieri mangio le mele senza pre-lavaggio, nutrendomi di pesticidi e sostanze chimiche. Potrei mettermi alla prova con due bracciate nel Gange, ma mi limito a vivere nel tentativo di farmi condizionare con misura (da intendersi come il rapporto tra una grandezza e l’altra e come quella appartenente al Gruppo Colussi). Prendere le distanze da quello che accade intorno, da quello che scrivono i giornali e trasmette la televisione. Capire cosa mi fa bene e cosa mi fa male. Tutto il resto? Spesso è poco rilevante, ai margini delle cose più concrete. E garantisco: non sono sei formelle di Weetabix a fare male.