28 February 2007

Il Buongiorno si vede dal benzinaio

A destra servito. A sinistra self-service. Bel dilemma. Alle otto del mattino, in modo particolare. Che fate? Permettete che uno spirito guida prenda il volante (non si chiama così, a caso) della vostra auto per parcheggiare proprio di fronte alla pompa del self-service, lasciandovi illudere che quei pochi centesimi risparmiati possano arginare il problema del continuo aumento della benzina? O vi fate convincere da uno spirito con dread-locks in testa e qualcos’altro in mano, che disgustato al pensiero che possiate mettere giù il piede dal tappetino anteriore del vostro mezzo su 4-ruote, neppure vi permette di sganciarvi le cinture di sicurezza?
La via di mezzo non esiste. Sì, c’è ancora chi arriva al distributore, abbassa il finestrino in attesa che arrivi il benzinaio, gli passa da una fessura le chiavi della macchina e gli sbiascica in faccia un “venti” senza pronunciare un grazie manco ad accoltellarlo, e poi che fa? Scende dall’auto. Perché? Per pagare? Per sgranchirsi le gambe? Per controllare che il povero benzinaio faccia veramente venti euro di verde o gasolio, senza fregarlo? Ma se devi essere così diffidente, allora perché non te la fai da solo?
Dentro o fuori. Nero o bianco. Destra o sinistra. Servito o self-service. Diamine, un po’ di decisione. Altrimenti prende tutto il sapore di un piatto combinato con spaghetti al pomodoro che accompagnano una cotoletta impanata e cavoletti di Bruxelles nello stesso piatto.
Puoi evitare il self-service, puoi evitarti il benzinaio o puoi evitarti la figura del fesso uscendo dalla macchina per far la bella statuina, ma se non ti decidi, rimani a piedi.
Inizialmente ero un tipo da self-service, inteso sempre come distributore non come percorso obbligato con un vassoio in mano. Fino a quando non mi sono accorta che le prime parole del mattino finisco per scambiarle proprio con la categoria Benzinai. Sul percorso casa-lavoro c’è il distributore Total. Qui trovo un tifoso neroazzurro con cui ogni lunedì scambio commenti soddisfatti sul posizionamento in classifica della nostra amata squadra; c’è Kabi, pakistano, con cui ogni tanto capita di prendere anche il caffè. Si parla di calcio, meteo e temperature miti per la stagione, e se va bene non me ne vado senza una copia di Metro in omaggio. Sul percorso lavoro-casa c’è Andrea. Quando i benzinai si misero in sciopero qualche settimana fa, lui restò aperto. E meno male perché io ero a secco, tanto per cambiare. Da Andrea, poco ci manca che dopo le 19 non ci si trovi nel bel mezzo di un happyhour-open air tanti sono i personaggi che si fermano a fare due chiacchiere. L’ultima volta mi ha trattenuto per darmi du’ dritte su come si piega in moto. Un’altra volta, per spiegarmi dove si trova il negozio del suo amico ferramenta, per sostituire il doccino della mia doccia (si chiama proprio doccino, lo chiama così anche il mio amico Erminio che fa l’idraulico di professione), rotto da un paio di mesi. Per i più, fermarsi al distributore è solo una scocciatura come buttare via la spazzatura, fare la raccolta differenziata delle batterie o andare alle riunioni condominiali. Per me, è un motivo in più per non rimanere a piedi.

23 February 2007

Tutti pazzi per Suzy... e CLDH

L’altro giorno mi sono trovata a girovagare all’Esselunga, in piena sindrome Punti Fragola. Sì, perché pare che suddetti punti, se non utilizzati entro il prossimo 21 aprile accaparrandosi un premio del catalogo, vadano persi, un po’ come le ferie non godute entro l’anno. Così, in questo periodo, i proprietari della Carta Fìdaty, una volta individuato un oggettino più o meno accessibile sul Catalogo Premi, sono presi da questa corsa frenetica ai Punti Fragola e acquistano qualsiasi prodotto possa aumentare i punti totalizzati. È mai stato così complicato fare la spesa al supermercato? Io comunque avrei adocchiato l’Elliptical. Trentacinquemila punti. Ma forse, considerata la mia spesa da single che non supera mai i trenta euro a settimana, è meglio che punti allo sbattitore per le uova a manovella. Ad ogni modo, questa volta ho acquistato un DVD, al modico prezzo di 14,90 euro e… ben 100 punti fragola in regalo. Titolo film: “Il Diavolo veste Prada”. La trama: la giovane Andy trova lavoro come assistente di Miranda Priestly, una moderna Crudelia DeMon nonché editrice della rivista di moda Runaway, che le rende la vita impossibile sia sul lavoro sia nella vita privata. Come se non bastasse c’è anche Emily, la prima assistente di Miranda, che cerca in ogni modo di sabotare Andy e di farla fuori alla prima occasione.
Un film che rispecchia abbastanza fedelmente il clima pacifico e disteso, lo spirito di squadra, di collaborazione e di solidarietà che si respira nella redazione di una rivista di moda, dove numerose Miranda ed Emily occupano diverse scrivanie (non si sa bene a fare cosa). Sì, perché al di là dei sorrisini, dei complimenti su come sei vestita bene, ma che bella borsa che hai acquistato, come ti sta bene il nuovo taglio di capelli, c’è gente pronta ad accoltellarti alle spalle. Cattiveria pura, invidia che sprizza da tutti i pori con un aggiunta di competitività che si trasforma in un Mors tua, Vita Mea. Parliamo un po’ delle giornaliste di moda. Una volta fatto lo sforzo di girare le frasi di un comunicato stampa in un simpatico e roccambolesco collage di proposizioni coordinate e avversative, per farne saltare fuori un redazionale, il grande sforzo è quello di presenziare a tutti i possibili ed eventuali incontri stampa. Parlare di conferenze sarebbe esagerato e troppo impegnativo (l’attenzione, si sa, crolla dopo dieci minuti), meglio parlare di presentazioni di collezioni, sfilate, buffet e cene. Obiettivo finale? Fare la propria comparsa in un ambiente frequentato dalla "gente bene", scroccare due tramezzini (solo due, perché se non si sta in una 42 non sei degna di scrivere di moda) e portarsi a casa, insieme alla cartella stampa, anche un regalino per i giornalisti. Se quest’ultimo scopo non sarà soddisfatto, vedrete la povera giornalista di moda uscire dal Save the date in corso nel più totale sconforto, come se avesse trovato nell’ovetto Kinder un trattore sfigato tutto da assemblare al posto delle tutte da collezionare “1 sorpresa su 5”. Per fortuna, l’eccezione conferma la regola e questa mattina, sulle pagine di un allegato di Panorama, comprato solo perché a pagina 157 c’è un articolo imperdibile su CLDH, ho letto di una certa Suzy Menkes, Style Editor dell’Herald Tribune. Ben lontana dalla taglia 42, con una banana in testa ricavata grazie a un bigodino King Size e piuttosto somigliante all’interprete principale di Misery non deve morire, Suzy Menkes è la giornalista più apprezzata e più temuta nel mondo della moda perché scrive quello che pensa. Non accetta né regali né inviti, semplicemente fa quello che dovrebbe essere la su aprincipale occupazione: la giornalista.

13 February 2007

Te…alle cinque

Londra ore cinque. Il rito del tè pomeridiano per il popolo inglese è un appuntamento imperdibile. Due pasticcini, qualche biscotto, una fetta di cheese cake e una tazza di tè fumante. Con latte freddo, una fettina di limone, con o senza zucchero: possono variare i modi in cui lo si preferisce degustare, le qualità del tè, le tazze di porcellana in cui viene servito, ma l’orario no, da quello non si sgarra. Evidentemente c’era una ragione perché, oltre un secolo fa, il giorno della sua incoronazione la regina Vittoria decidesse di prendere il tè proprio a quest’ora nei salotti di Buckingham Palace, trasformando quella che poi altro non era che una banale merendina tra amiche in una vera tradizione. Poco da stupirsi in verità, perché, in effetti, sembra ci siano orari prestabiliti, o più idonei rispetto ad altri momenti della giornata, per dedicarsi a certe attività. Ad esempio, l’ora migliore per fare la spesa all’Esselunga va dalle 19 alle 21, quando per i vari reparti non girano troppe persone. Le ore del lunedì pomeriggio sono perfette per lo shopping. E ancora, correre di primo mattino è l’ideale, perché permette di ottenere maggiori benefici, il cuore è allenato al massimo e i tempi fisiologici dell’organismo vengono sincronizzati. Insomma, è anche una tesi di una scienza nota come cronobiologia, per la quale occorre armonizzare le nostre attività mentali e fisiche con i ritmi naturali dell’organismo, per ottenere il massimo rendimento con il minimo dello sforzo. Se le lancette dell’orologio indicano le cinque come l’ora migliore per sorseggiare una buona tazza di tè, ciò non significa che il tardo pomeriggio non si riveli anche il momento ideale per altre attività. A quanto pare, sulla base di nessuna indagine statistica, l’ora del tè è anche l’ora del miglior sesso. Già. Niente cose affrettate di prima mattina senza aver fatto ancora colazione, con lo stomaco che brontola e con l’ansia di arrivare in ufficio puntuali. In piena digestione dopo pranzo poi, non se ne parla nemmeno, quella è l’ora della pennichella. Prima di dormire? Sì, purché non si crolli dal sonno appena toccato il materasso. Le cinque del pomeriggio invece, sembrerebbe essere l’ora ideale per dedicarsi al proprio partner o, a questo punto, al proprio compagno di merende. Scampato il pericolo di abbiocco postprandiale e digestione all’ultimo stadio, e se si ha avuto tempo di dedicare una mezz’oretta a un sonnellino ristoratore le energie non mancano. Unire poi il tutto, al tradizionale rito del tè, è cosa ancora più originale. Meglio evitare di abbuffarsi, soprattutto tenersi alla larga da quei biscottini al burro che sembrano mattoncini Lego in versione oversize, per rischio di non riuscire a muoversi più dal divano. I migliori sul mercato? Gli Speculoos. Biscotti con farina di frumento, farina integrale e miele che sembrano essere nati per tuffarsi nel tè; oppure gli Anna’s, i biscotti alla cannella di IKEA. Meglio poi affezionarsi a una qualità di tè perché è dimostrato, sempre da fonti non attendibili, che dia più stabilità alla coppia. La Twinings insegna. Saltare di palo in frasca, da un Lemon&Ginger a un classico Prince of Whales, da un tradizionale Earl Grey o un Vanilla Tea, diventa cosa un po’ promiscua e poco simpatica, un po' come saltare da un uomo all'altro. Io mi sono affezionata all’English Breakfast e non lo cambio più.

08 February 2007

Dueruotine

In principio fu il triciclo. Le prime spinte con i piedi a terra, prima di capire il complesso meccanismo dei pedali sulla ruota anteriore, le ricordo su un triciclo rosso fiammante. Il passaggio successivo è stato su una biciclettina gialla da cross, a quattro anni. In verità di cross ne facevo poco perché, non sapendo ancora coordinarmi sul mezzo, la suddetta bici era accessoriata con due ruotine cigolanti per rimanere in equilibrio. Fino al giorno in cui, ormai iscritta alla scuola dell’obbligo, decisi che era arrivato il momento di imparare ad andare in bicicletta. Ruotine alle spalle (nel senso che me ne liberai, perché fisicamente già stavano lì), mi misi di impegno nel cortile di casa con mia madre impegnata a reggermi (in ogni senso) sulla bicicletta di mia sorella, una Graziella color argento. Qualcuno dice che sia un colore da vecchi, ma preciso: era un Silver Galaxy.
Ci sono diverse modalità di insegnare ad andare in bici, secondo la tecnica adottata dall’insegnante:
a) la completa (ossia tenuta di manubrio e sella), tecnica che conferisce sicurezza al manovratore di manubrio principiante
b) la parziale (solo sella)
c) la spinta da dietro (soluzione suicida per l’aspirante biciclettaro)

Fortunatamente non ci misi molto a imparare e negli anni a venire mi dilettai su altri mezzi a ruota: i pattini Gioca, lo skateboard, il Pedalò che si vinceva con dieci incarti di Ciocorì&Biancorì. Niente a che vedere con il pedalò o pattíno tipico della Riviera Romagnola, nossignore. Il pedalò cui mi riferisco era un trabiccolo infernale con quattro ruote, il cui utilizzo permetteva di muoversi alla velocità di duecento metri l’ora se andava bene. (“Compagni roditori, fatico a pedalare, mi devo sgranocchiare un dolce Ciocorì” il jingle della pubblicità ndr). Tornando alle ruote, in pubertà i tempi furono maturi per un RX50 Aprilia, acquistato usato. Unico problema: un’accensione elettrica un po’ dispettosa e di pedivella, neppure l’ombra. Così più di una volta mi vidi costretta a rincorse sulle mie gambe con manubrio in mano e leva della frizione pigiata o discese libere per la rampa del box, nell’arduo tentativo di non schiantarmi contro il garage di qualche vicino di casa. Un mio amico un giorno mi regalò una grande verità: le moto sono come le donne, una volta che ne hai provata, ne vuoi già un’altra. Non passò troppa acqua sotto i ponti perché acquistassi uno scooter: uno Scarabeo 50. Rubato. Già. Annuncio su Secondamano, incontro con losco individuo vicino a Piazza Lodi, scambio scooter-contanti sul marciapiede, non proprio davanti a casa, come tenne a precisare il venditore improvvisato del mezzo. Una minima differenza di una cifra (era poi solo uno “0” ) tra il libretto di circolazione e il telaio, mi insinuò il dubbio che probabilmente il mezzo fosse rubato; la scomparsa poi improvvisa del truffaldino, nei giorni successivi l’atto di acquisto-vendita, degna di una puntata interamente dedicata di Chi l’ha visto? non fece che dare adito ai miei pensieri. Negli anni ho testato altri veicoli di spostamento: monopattini, rollerblade, pattini a rotelle a scomparsa (sì, quelle che spariscono nella suola delle scarpe), ma le due ruote a benzina non temono concorrenza. Scorrazzare per le strade della città senza paura di far tardi, senza una meta, le giornate che iniziano ad allungarsi, l’aria fresca in viso (purché non vi troviate in tangenziale o in centro città) e qualcuno che non stia in mezzo alla strada (cazz..#!%# @!!) sono sensazioni uniche che ti portano a pensare…quand’è che mi compro una moto?

05 February 2007

Bla-Bla Papà

Sembra che nei primi due anni di vita di un bambino la ricchezza del vocabolario del padre costituisca una variabile determinante per la struttura e la complessità di linguaggio che il figlio utilizzerà una volta cresciuto. È il risultato di una ricerca condotta da un team di ricerca dell’Università del North Carolina, che ha lasciato tutti un po’ perplessi, compresa la sottoscritta. Possibile che gli uomini, rinomati per essere di poche parole, per il loro rispondere a fatica alle domande incalzanti di noi donne su ogni questione per noi di importanza vitale come il colore delle presine più adatto alle piastrelle della cucina o il sistema di progettazione di una galleria del vento, siano alla fine così influenti?
Sì. Nonostante i padri parlino poco e facciano meno domande ai bambini, sembrano avere più effetti sui figli rispetto alle madri. Com’è possibile che chi parla di meno abbia una maggior influenza? Gli scienziati spiegano il fatto puntando sull’importanza della qualità del linguaggio puttosto che la quantità. E a pensarci bene forse è così che dovrebbe funzionare, sempre. Parole, parole, parole. Quante se ne usano? Quante dobbiamo ascoltarne? Parole messe assieme alla rinfusa per i motivi più vari, parole per convincere, parole usate per difendersi, spesso per mentire, a volte per confortare. Parole che vengono fuori solo per non lasciare spazio al silenzio. Un po’ come quando ci si ritrova in ascensore con l’inquilino del 5° piano e per l’imbarazzo si discute anche del cambiamento climatico terrestre, piuttosto che godersi un sacrosanto silenzio della durata di cinque piani. Quante di queste parole sono davvero necessarie? Alcuni omini in camice bianco del North Carolina hanno detto la loro. Io, qualche perplessità l’avevo già, ma sulla questione parole, non prole, senza caduta di vocali insomma.
L’uso che si fa delle parole nasconde, e può rivelare allo stesso tempo, molte cose. Di fronte a un venditore immobiliare, un assicuratore, una commessa o un testimone di Geova che apre bocca, ho l’immmediata impressione che mi voglia intortare. La cosa strana è che più un personaggio del genere parla, più inizio a pensare alla strategia di raggiramento che sta adottando allo scopo, più mi distraggo. Il risultato è che inizio a non capire un fico secco di quello che mi sta raccontando, non ascolto più e questo senza saperlo continua a parlare a vuoto. È il rischio di usare troppe parole, quasi se ne facesse un uso spropositato per colmare qualcosa che manca, o una fregatura nel caso di venditori di assicurazioni.
A volte ne bastano poche, dette al momento giusto, per spiegare delle situazioni, dei comportamenti. Sono rare, per questo preziose. Sono quelle più ascoltate, da chi le pronuncia e da chi ne è il destinatario.
A volte invece, non servono affatto, perché ci si riesce a capire in altri modi e maniere che sostituiscono l’uso della parola, e soprattutto, non lasciano spazio a malintesi. Quando ci si accorge che non serve dire niente, perché basta ascoltare. Quando ci si accorge che sarebbero inutili, perché le cose vanno bene così, senza infiniti giri di parole. Alla fine non si ascolta di più, chi parlare meno, piuttosto che chi di parole ne abusa troppo? Cosa succederebbe se Lurch, il maggiordomo degli Addams iniziasse a parlare come Zio Fester?
Senza complicare le cose, e usare troppe parole, anche senza prole è meglio avere attorno chi della parole ne fa solo uso qualitativo più che quantitativo. Poi qualche incomprensibile suono proveniente dalla glottide o un robotico cenno fatto con la testa alla Ivan Drago rientra sempre nella complessità di linguaggio di un essere umano di genere maschile.