28 November 2006

The Big Brother, come Don Bosco inventò il Reality

Io ho fatto le scuole dai Salesiani. Tre anni di scuola Media Inferiore e un biennio di Liceo Scientifico. In fin dei conti ero contenta che la mia educazione fosse stata affidata ai Salesiani (e non alle suore), soprattutto per quella voce che circolava su come “le figlie di Maria son le prime a darla via”. Ad ogni modo, ho passato cinque anni circondata da immaginette, poster, ritratti, cornici di un certo Giovanni Don Bosco, un tizio che prima di farsi sacerdote, fece il fabbro, il sarto, il barista e diede addirittura ripetizioni e che, soprattutto, sentiva una gran vocazione nell’aiutare i giovani. Forse è per questo motivo che ogni mattina c’era l’abitudine di recarsi, prima dell’inizio delle lezioni, nella cappella dell’istituto. Io ci passavo puntualmente, entravo furtiva, facevo il mio segno della croce, recitavo un rapido Angelo Custode con il pensiero all’imminente interrogazione di latino della prima ora o cercando di visualizzare un 6 a penna nera sul libretto dei voti (scolastici, non sacerdotali) e poi mi facevo anche un guazzetto nell’acqua santa, non si sa mai.
Mercoledì mattina c’era pure la Messa… durante l’ora di matematica (!). E quando dopo la funzione, i pochi fedeli della classe rientravano in aula con un buon ritardo di quaranta minuti dal suono della campanella di inizio lezioni, il professore ci guardava come se avesse di fronte un gruppo di Eretici o Bestie di Satana, del genere “Tanto lo so, che ci siete andati solo per saltare la mia lezione”. In effetti, la messa del mercoledì mattina equivaleva a un cartoncino “Passa dal Via e ritira 20.000 lire”, saltando il Parco della Vittoria.
I fratelli salesiani, per quanto girassero vestiti da uomo nero o secondo le tendenze moda dettate da una famosa Mercoledì della Famiglia Addams, erano personaggi gradevoli e rassicuranti, con nomi a volte un po’ astrusi: Ivo, Gilberto, Alcide. E non ho mai capito se si trattasse di nomi propri di battesimo o nomi d’arte che si sceglievano al momento di farsi Salesiani, un po’ come Madonna dopo aver lasciato i Breakfast Club. Io avevo Fratel Aristide per geografia e Fratel Lorenzo per inglese, ma il fatto che fossero religiosi mi lasciava abbastanza tranquilla durante le interrogazioni. Don Bosco è noto per aver avuto un sacco di sogni rivelatori, a me dei cinque anni dai Salesiani sono rimasti solo gli incubi delle interrogazioni di latino. Il mio professore era un certo Carlo Alberto Ors*****, molto, ma molto somigliante al Dr. Lecter de “Il Silenzio degli Innocenti”, trama straordinariamente anticipata in quegli anni, proprio durante la sua lezione. Lo vedevamo arrivare da lontano nel corridoio, passo rapido e occhiali da vista appesi solo da un orecchio, era il suo segno di riconoscimento. Entrava in classe, si sedeva, faceva l’appello e poi passava alla scelta delle vittime di quella lezione. Iniziava a scorrere i nomi del registro dall’alto in basso due o tre volte, e poi ancora, dal basso all’alto altre tre o quattro volte, mietendo terrore trai banchi con un prolungato “Vengaaaaaaaa……” che non sembrava mai avere fine. In quegli attimi, che duravano un tempo infinito, c’era chi toccava ferro, chi toccava altri diademi, chi cercava di non pensare al proprio cognome, perché proprio quello, a breve, poteva riecheggiare tra le mura dell’aula. Già, proprio un po’ come al Grande Fratello al momento dell’eliminazione dei concorrenti. Il mio trend annuale prevedeva un bel 5 al primo semestre, per poi migliorare nel secondo e raggiungere a volte anche il 7 a fine anno. Chi mi rimbalzò a settembre, d’altronde, chi poteva essere se non il professore di matematica?

21 November 2006

ADotta un A.D.

Io vivo in una mansarda. In una specie di casa di corte alla Melrose Place dove la maggior parte dei vicini di casa ha un giardino, oltre che a una taverna. L’inquilino del piano terra ha anche una mini piscina di quattro metri quadrati. Ebbene, se il mio nucleo famigliare non fosse composto di un solo elemento singolo, con ogni probabilità avrei optato per la soluzione appartamento più qualche metro di verde. Avrei di sicuro un cane, un rottweiler, oppure un gatto (andrei a ricercare Achille) e perché no, un asinello. Si dà il caso, infatti, che si possa adottare un asino (www.asinomania.com). Dopo un periodo di affidamento preadottivo, una sorta di prova di tre mesi, per chi nutrisse ancora dubbi se ospitare o no un ciuchino a casa propria, l’adozione è possibile. Nel mio caso, non avendo uno sputo di verde dove farlo stare, potrei adottarlo a distanza. Certo, non riceverei lettere in cui mi racconta i suoi progressi e quanto mi è grato per averlo adottato, ma potrei ricevere le sue foto per seguire la sua crescita e andare a trovarlo ogni domenica per spazzolarlo un po’. Non mi convince. Così, prendo e faccio una ricerca in rete per vedere se posso fare qualche altro tipo di Adozione, presa da una frenesia di Dalila Di Lazzaro. Tramite il CTS, si può adottare un delfino… no, si tratta di un’adozione simbolica, non posso nemmeno tenerlo nella vasca da bagno, e tanto non ho neppure quella a casa mia. Sul sito del Parco Delta del Po, scopro che posso adottare un fenicottero con solo dieci euro, se ne prendo due ho anche uno sconto e ne pago solo quindici. E posso anche dargli un nome. Come farlo a riconoscere tra i 1.118 fenicotteri che popolano l’intero parco rimane un mistero. Trovo anche un sito dove è possibile adottare un vigneto, diventando proprietario di una porzione di terra di qualche prestigioso vigneto italiano, per poi ritirare le bottiglie del mio vino presentando semplicemente il Certificato di Adozione delle mie viti. Si, ma se non vado a raccogliere l’uva personalmente e saltare in un catino sui grappoli d’uva, che gusto c’è? Quando inizio a perdere le speranze, finalmente qualcosa di interessante: Aderisci anche tu alla campagna “ADotta un A.D.”.
Come, come? Vuoi dire che posso adottarmi un A.D. da tenere in casa? L’amministratore Delegato di un’azienda è quella figura sufficientemente lontana dalla tua vita quotidiana in ufficio da non esserti odioso o insopportabile. Difficilmente avari incubi notturni o pensieri suicidi all’idea di tornare in ufficio il lunedì mattina e vedertelo di fronte. Pochi contatti, magari qualche saluto in corridoio, ma la verità è che un amministratore delegato non ti starà mai sul collo come un direttore nevrotico, un responsabile despota o un superiore tirannico. Magari è pure un gran figo. Si, perché non è detto che si aggiri intorno all’età del pensionamento, e con ogni probabilità, esercita su di te, dipendente (nel vero senso della parola) dell’azienda che lui gestisce come una partita di Monopoli, un certo carisma, fascino o libidine nell’orario lavorativo e non solo. Mai pensato ad un A.D. da adottare. Perché farlo? Saranno bisognosi di affetto, coccole, carezze? E poi che faccio? Me lo porto a casa dopo le 18? Magari lo adotto a distanza, nel senso che lo lascio in azienda e io lavoro da casa. Forse e lui che dovrebbe adottare me. Ad ogni modo, niente di quello che pensavo. In verità, trattandosi di un’iniziativa Unicef, mi sa che è qualcosa di ben diverso da quello che pensavo.

16 November 2006

You've Got Mail from Starbucks

Quando mai te lo aspetteresti, da qualche parte nel mondo, qualcuno ti sta dedicando sessanta secondi del suo tempo...

Hello Gaico,

Thanks so much for your suggestion regarding a potential Starbucks store location.
We're always looking for great new places to open stores, so I'd be more than happy to pass along your comments to our store development team for their consideration.

Thanks for taking the time to contact us. We appreciate your interest and look forward to seeing you in our stores soon!

Warm Regards,

Rachel A.
Customer Relations Representative
Starbucks Coffee Company

10 November 2006

Dentro o fuori, può cambiare tutto

Stasera vado a tagliarmi i capelli. Magari cambio anche colore. Chissà poi che tornando a casa, trovandomi nell’affollatissima stazione di Cadorna, non perda la metropolitana, non finisca all’ospedale per essere scivolata su una buccia di banana sul marciapiede e che alla fine di questa catastrofica sequenza di sfighe, non mi capiti qualcosa di bello. Oppure che scavalcando venti, trenta persone riesca a prendere questa benedetta metropolitana, e che, arrivando in orario al campetto di Football Americano per prendere in consegna cd con foto per articolo affibbiatomi dalla redazione sportiva del giornale, non incontri un avvenente Hulk Hogan che mi invita a pizza e coca in allegria.
Vi è mai capitato di svegliarvi una mattina e chiedervi se da lì a qualche ora, prima che faccia sera, non capiterà anche a voi una situazione da “Sliding Doors”? E di essere presi anche dalla paura di fare la scelta più sbagliata possibile? Una cosa è certa, perdere la metropolitana è un gran giramento di palle.
Ad ogni modo, Gwineth Paltrow insegna. Ho visto quel film almeno quattro cinque volte. Tutte le volte che lo guardo, passo 105 minuti a commiserare la Gwineth che viene licenziata, che perde per un soffio la metropolitana, che viene aggredita da uno squilibrato borseggiatore e finisce per fare la cameriera e a portare sandwich al pollo proprio all’amante dell’ominide con cui continua a convivere, ignara dei suoi tradimenti.
La Gwineth che invece, a inizio film becca a casa lo stronzo che se la sollazza con Lady Godiva a smorzacandela sulle note di Elton John, si prende di sicuro una bella batosta ma, alla fine:
1) taglia i capelli e si fa bionda (come noi donne siamo solite fare quando vogliamo dare un taglio a qualcosa che non ci va nella vita) e sta molto meglio
2) si mette in proprio con un'attività di PR tutta sua
3) incontra un tipo, anche più carino del decerebrato mentale che aveva in casa
Poi alla fine muore, ma è un dettaglio.
Ad ogni modo interrogarsi o no sull’eventualità di trovarci in una situazione da “Sliding Doors” serve a poco. Accorgersi in tempo di quando ci si trova proprio in mezzo (non alle porte, alla situzione), è fondamentale. Un testa o croce delirante direi.
E quando ci si accorge di averla già vissuta in passato una situazione del genere? A quel punto, può scattare il rimpianto, il rimorso o si può assumere l’atteggiamento di chi si vuole prendere ancora un po’ di tempo per capire se ha fatto bene o male a prendere una decisione piuttosto che un’altra.
Esattamente un anno fa mi licenziavo da un impiego ben retribuito e a tempo indeterminato (una manna dal cielo di questi tempi) per fare la Clark Kent in versione femminile e freelance.
Due mesi da saltimbanco tra una redazione e l’altra per ritrovarmi una mattina seduta a una scrivania con un contratto da praticante giornalista nella redazione di una rivista di bambini. Un bel culo, direi.
Esattamente un anno fa ricevevo anche una lettera in cui mi veniva comunicato che la mia domanda per essere ammessa a un Master de Periodismo a Bilbao in Spagna era stata accettata. Chissà. Magari adesso mi troverei con il fondoschiena su una comoda poltroncina della redazione di “Casa y Estilo", “El mundo del Caballo”, “Cocina Fàcil”, “Perros de caza”